Virtù e Fortuna in Machiavelli (di Diego Fusaro)

IL RAPPORTO VIRTU’ – FORTUNA

Diego Fusaro http://www.filosofico.net/index007.htm#n34

In Machiavelli si delineano due concezioni della virtù : la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabili istituzioni dello Stato, e che non è meno eroica della prima, come dimostrano tanti esempi della storia di Roma, dove rifulse la virtù di semplici cittadini. Machiavelli ha comunque una visione eroica dell’agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza dell’uomo, che era stata patrimonio della civiltà comunale (si pensi a Boccaccio), ed era stata poi ereditata e consapevolmente teorizzata dalla civiltà umanistica. Ma, proprio sulla scorta di questa tradizione di pensiero, Machiavelli sa bene che l’uomo nel suo agire ha precisi limiti, e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni, e che non dipendono dalla sua volontà. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante della fortuna. E’ questo un altro grande tema della civiltà umanistico-rinascimentale , che fa anch’esso la sua comparsa sin da Boccaccio . E’ il frutto di una concezione laica e immanentistica, che mette tra parentesi la presenza nel mondo della provvidenza , intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente a un fine, e porta in primo piano il combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalità trascendente. Dalla tradizione umanistica Machiavelli eredita la convinzione che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna. Egli ritiene che essa sia arbitra solo della metà delle cose umane, e lasci regolare l’altra metà agli uomini. Vi sono per Machiavelli vari modi in cui l’uomo può contrapporsi alla fortuna. In primo luogo essa può costituire “l’occasione” del suo agire, la “materia” su cui egli può imprimere la “forma” da lui voluta. La “virtù” del singolo e l’ “occasione” si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico “virtuoso” non sa approfittarne. L’occasione può anche essere una condizione negativa, che serve di stimolo ad una virtù eccezionale. Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell’Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perchè potesse rifulgere la “virtù” di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro. In secondo luogo la “virtù” umana si impone alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti quieti l’abile politico deve prevedere i futuri rovesci, e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena. Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante , volubile , e la virtù umana , che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La “virtù” di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico, ricavate, come sappiamo, sia dall’esperienza diretta sia della “lezione” della storia passata; in secondo luogo dalla capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni, il mutare dei rapporti di forza, l’incidenza degli interessi dei singoli ; infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la “virtù” del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche , che conferma che nel pensiero machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte. Ma vi è ancora un terzo mondo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna, e quindi un’altra dote che concorre a determinare la “virtù” umana: il “riscontrarsi” con i tempi, cioè la duttilità nell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in cui si è obbligati ad operare. Ad esempio, in certe occasioni occorre agire con cautela e ponderatezza, in altre con impeto e ardimento, in certi casi occorre l’astuzia della volpe, in altri la forza del leone. E qui compare una nota pessimistica: questa duttilità è una dote altamente auspicabile, ma quasi mai si ritrova negli uomini, che non sanno variare il loro comportamento secondo le circostanze , perchè , se hanno sempre avuto buon esito nell’ operare in un certo modo , difficilmente sanno adattarsi a ricorrere a moduli diversi ; per cui i politici avranno buon esito solo se le circostanze saranno conformi alle loro doti naturali : cioè la statistica , se sarà cauto e prudente , avrà successo solo se si troverà ad agire in circostanze che esigono prudenza , ma se i tempi variassero , ed esigessero decisioni pronte ed audaci , egli non saprebbe certamente adattarsi ed andrebbe in rovina . Come si vede  1494, Italia

Machiavelli reintroduce così, pessimisticamente , un fattore di casualità che sfugge al controllo dell’ uomo.

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Il periodo tra il 1494 e il 1527 di Paul Larivaille

Paul Larivaille
Lo sfacelo italiano e l’arte della guerra

 http://www.lastoria.org/larivaille.htm

  Paul Larivaille,
La vita quotidiana in Italia ai tempi di Machiavelli,

pp. 110-123
Rizzoli, 1995
www.rcs.it  

 

 

1. Debolezza italiana 2. Declino progressivo degli Stati italiani
3. L’arte militare nel Machiavelli 4. Critiche all’«arte»
5. Il reclutamento delle milizie fiorentine  

 

Debolezza italiana
Accolite di mercenari disgregati, coacervi di effettivi instabili e non devoti agli Stati cui prestano il loro servizio, ancor meno entusiasti nel combattimento a causa del gioco complicato della politica e della diplomazia italiane che li sballottano da una lega all’altra nell’ambito dell’incessante rimescolamento d’alleati e di nemici, niente affatto propizi agli odi accaniti, inoltre mal dotati di fanteria ed artiglieria, questi eserciti della fine del XV secolo non possono che opporre debole resistenza alle armate moralmente e tecnicamente più preparate che s’accingono a fare della penisola il campo di battaglia d’Europa. Carlo VIII, per primo – in viaggio verso Napoli che rivendica in virtù della parentela con i Valois e gli Angiò, precedenti sovrani del reame – può, conforme all’espressione resa celebre dal Machiavelli, «pigliare la Italia col gesso». Alla fine d’un’autentica passeggiata militare di sei mesi, punteggiata di tappe a Milano, Firenze e Roma, le truppe francesi entrano nel febbraio 1495 senza colpo ferire in Napoli, abbandonata dal sovrano in fuga. Ed anche quando la coalizione generale degli Stati italiani, Spagna e Impero lo costringeranno a lasciare la presa e ritornare in Francia, Carlo VIII supererà senza eccessiva difficoltà lo sbarramento di truppe italiane ammassate a Fornovo per impedirgli la ritirata (luglio 1495). Avranno un bel cantare vittoria nella penisola ed acclamare il marchese di Mantova, comandante in capo della coalizione, quale liberatore di tutta l’Italia; in realtà gli Italiani vengono meno al loro obiettivo, che era di inibire il passaggio ai Francesi. Fornovo sarà giustamente giudicata dal Machiavelli quale primo di una serie di fallimenti che durante i successivi decenni stigmatizzano lo sfacelo politico-militare italiano e mettono la penisola in balìa delle potenze straniere. Il collasso non è così brutale come lo fanno ritenere le pagine appassionate di un Machiavelli o di un Guicciardini. Gli Stati della Chiesa, durante il pontificato dei Borgia ed ancor più sotto quello bellicoso di Giulio II, conserveranno a lungo un esercito temibile. Venezia, soprattutto, che annovera più di quarantamila uomini in armi, dei quali circa i due terzi sono fanti, rappresenta una potenza militare che Francesi e Spagnoli son lungi dal sottovalutare, anche perché, grazie al suo arsenale fra i principali dell’epoca, essa possiede un’artiglieria allarmante. Tuttavia il fatto nuovo e irreversibile che si verifica dopo il 1494 è la presenza costante, incrementantesi e finalmente determinante delle grandi potenze finitime (Francia, Spagna e Impero) in tutti i conflitti della penisola. Nel 1499 Luigi XII, succeduto nell’anno precedente a Carlo VIII sul trono di Francia, ritorna nel Milanese grazie alla complicità interessata di Venezia e spodesta Ludovico il Moro. È con l’aiuto delle truppe francesi che, nello stesso tempo, Cesare Borgia si lancia alla conquista delle signorie dell’Italia centrale. Nel 1501 Luigi XII aggiunge a quella del Milanese la conquista del regno di Napoli, donde verrà cacciato nel 1503 dagli Spagnoli; ma il trattato di Lione, nell’anno 1504, consacrerà la divisione dell’Italia in due zone d’influenza, spagnola al sud e francese al nord. Più tardi, incitati dal papa Giulio II, Francia, Spagna e Impero prendono parte in modo preponderante alla guerra contro Venezia (1509). In seguito la Lega Santa, che scaccerà provvisoriamente i francesi dal Milanese dopo la battaglia di Ravenna (1512), raggruppa ancora una volta meno Italiani (la Chiesa e Venezia) che stranieri (Spagna, Svizzera, Inghilterra). Nello stesso anno è un esercito spagnolo che riconduce i Medici a Firenze. Nel 1515, dopo la vittoria francese di Marignano, Francia e Spagna si trovano nuovamente di fronte, e il trattato di Noyon conferma ancor più la divisione dell’Italia in due zone d’influenza. Questo equilibrio di forze straniere nella penisola sarà ancora spezzato dopo l’avvento di Carlo V a capo dell’Impero (1519), e Francesi e Imperiali riprenderanno le ostilità nel Milanese. Successivamente, dopo Pavia (1525), il Sacco di Roma (1527) e l’assedio di Firenze (1529-30), gli Imperiali esercitano sull’Italia un’egemonia che le guerre franco-imperiali dei posteriori decenni lasceranno invariata, e verrà definitivamente sancita mediante il trattato di Cateau-Cambrésis del 1559.

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Declino progressivo degli Stati italiani
La partecipazione degli Stati italiani a tutti questi conflitti, di cui la penisola è la posta, continua a diminuire. Il regno di Napoli, il ducato di Milano e Genova diventano l’uno dopo l’altro fortificazioni straniere. Qualche Stato minore, come la piccola repubblica di Lucca, tenta con maggiore o minore successo di mantenere una prudente neutralità. Soltanto qualche grande Stato sopravvissuto si sforza di conservare la propria indipendenza, proseguendo assieme ai nuovi alleati europei la tradizionale politica di destreggiamento. Venezia, dopo la sconfitta del 1509, che pone definitivamente termine alle sue antiche ambizioni egemoniche continentali, ripiega su una politica difensiva e cerca le alleanze più adatte alla salvaguardia della propria integrità territoriale: le pretese francesi la spingono inizialmente verso la Lega Santa (1511), poi l’accrescersi del pericolo imperiale la riporta per circa dodici anni, a partire dal 1515, nell’orbita di Francesco I, ma il fallimento della Lega di Cognac (1526) l’obbligherà a rappacificarsi con l’imperatore e a sottoscrivere con lui un compromesso che presenta bene o male la propria indipendenza a prezzo della rinuncia a qualsiasi intervento negli affari della penisola. La Chiesa, più d’ogni altro Stato, durante il primo quarto del XVI secolo, sembra conservare ancora un importante posto nei destini dell’Italia, ma il Sacco di Roma del 1527 la getta a sua volta praticamente sotto l’arbitrio di Carlo V. Con Roma, Firenze, le cui sorti sono legate a quelle dei papi Medici in seguito al rovesciamento della repubblica filofrancese operato dagli Spagnoli nel 1512, oscillerà nell’orbita imperiale, dopo la nuova breve parentesi repubblicana degli anni 1527-1530. Insomma gli imbrogli politico-diplomatici, le leghe e i rovesciamenti d’alleanze, che perseverano fino al 1530 circa, possono illudere che tutto continui come prima e le potenze europee si sono soltanto sostituite ad altri alleati nel secolare gioco della politica italiana, ma la sempre più schiacciante preponderanza degli eserciti stranieri indica sufficientemente a chi ormai giova simile gioco. Dai primi anni del secolo, e comunque dopo la disfatta veneziana del 1509, le armate degli Stati italiani figurano soltanto quale forza sussidiaria a vantaggio dell’una o l’altra delle grandi potenze che si disputano l’egemonia nella penisola. In assenza del principe unificatore sognato dal Machiavelli, non soltanto non può esistere un esercito italiano ma neppure delle armate autonome, proprio allorché, probabilmente, i soldati italiani sono più numerosi di quanto mai lo siano stati. Infatti ce ne sono dovunque e d’ogni grado, nelle truppe degli Stati italiani come in quelle di Francesco I e di Carlo V, sì che ogni battaglia risulta in larga misura un combattimento fratricida; come nel secolo precedente, ma con la differenza che l’entrata in lizza dei paesi stranieri ha reso i combattimenti più accaniti e sanguinosi delle tenzoni poco micidiali disputate prima del 1494. Non è raro che persone dello stesso paese, amici o parenti, si trovino nell’uno e nell’altro degli eserciti antagonisti; e la vita del tempo formicola di situazioni assurde, eccitatrici di ilarità se non testimoniassero dolorosamente la disgregazione generale che corrompe l’Italia. La secolare rivalità delle due maggiori famiglie romane, Colonna e Orsini, induce questi ultimi a militare nell’esercito francese, mentre i Colonna forniscono alla Spagna e poi all’Impero alcuni dei loro migliori capitani. Si può immaginare in quale delicata situazione si trovino i papi, costretti a reclutare altrove condottieri e soldati, mentre i propri sudditi combattono a favore di potenze straniere, alcune delle quali in stato di belligeranza con la Chiesa. E se molte donne attendono passivamente che i propri mariti o familiari fra loro nemici cessino di dilaniarsi, altre non si peritano d’intervenire. Così nel 1512, mentre Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, si trova alla testa di truppe pontificie assoldate nella Lega Santa contro la Francia e il suo alleato duca di Ferrara, Isabella d’Este, marchesa di Mantova e sorella del principe di Ferrara, ordina di lasciar transitare nel territorio di Mantova le truppe francesi (nemiche di suo marito) che accorrono in soccorso del proprio fratello. La solidarietà verso la propria famiglia originaria prevale sui suoi doveri di consorte! Assai più tardi, durante il Sacco di Roma, Isabella, che in quel momento soggiorna nella città, si troverà nuovamente in una situazione delicata. Sentendosi al sicuro nel palazzo dei Colonna (notoriamente filoimperiali), ove si è stabilita mentre il proprio figlio Ferrante Gonzaga fa parte dei capitani dell’esercito assalitore, accoglie una gran folla di dame, ambasciatori, preti, mercanti in cerca di rifugio dalle soldatesche che saccheggiano Roma. Ma gli imperiali, senza alcun riguardo verso alleati e nemici, esigono un riscatto; perciò la marchesa deve interporsi fra i vincitori e i suoi protetti negoziando il «riscatto» di questi ultimi all’astronomica somma di 52.000 ducati, dei quali 10.000, a detta del Guicciardini, passeranno nelle casse di suo figlio. Dal fatto al sospetto d’aver accordato a quegli infelici ospiti un asilo non disinteressato corre soltanto un passo, che molti contemporanei non hanno esitato a compiere; senza dubbio a torto poiché simile accusa mal s’attaglia alla statura morale della celebre marchesa, la cui disgrazia costituisce l’emblematica conseguenza dello sconvolgimento generale italiano.

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L’arte militare nel Machiavelli
Machiavelli non è soltanto uno degli uomini che hanno diagnosticato con maggiore acume le cause della decadenza militare italiana, ha pure, limitatamente alle sue possibilità, tentato ostinatamente di recarvi rimedio. Conscio della preponderante responsabilità imputabile al colpevole disinteresse dei principi italiani del XV secolo verso i problemi militari, ha preposto nel suo trattato, dedicato al giovane Lorenzo de’ Medici, un modello di principe condottiero che non «debbe pertanto mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra»; un principe capace di raddrizzare l’Italia avvilita e liberarla dai barbari. Secondo la sua abitudine di paragonare le storie antiche con l’«esperienza delle cose moderne», il Machiavelli si è inoltre preoccupato, anzitutto ne Il principe e con maggior concretezza nel trattato dell’Arte della guerra, di definire una tattica utile a contrastare sia la temibile cavalleria francese che le terribili fanterie svizzera e spagnola. A suo giudizio infatti le battaglie dell’epoca impongono una triplice constatazione: la cavalleria francese è avversata dai quadrati di picche della fanteria svizzera (e di quella germanica mutuante la tattica svizzera), ma la pesante fanteria svizzera è a sua volta inferiore agli agili fanti spagnoli, armati di rotelle, corte lance e spade, che s’insinuano fra le numerosissime picche, inutili nel combattimento corpo a corpo; ma questa agilità che consente alla fanteria spagnola di prevalere sulla svizzera, diventa irrimediabilmente svantaggiosa a cospetto della potente cavalleria francese, della quale non riesce a sopportare l’urto. Sulla scorta di questo triplice postulato, occorre trovare un altro tipo di fanteria accumulante i vantaggi di quella svizzera e di quella spagnola senza trarne danno: una fanteria «la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti: il che farà la generazione delle armi e la variazione delli ordini». Illustrando questi precetti generali nella sua Arte della guerra, il Machiavelli suggerisce la seguente ripartizione di un esercito di seimila fanti: mille soldati armati di schioppetti; duemila armati come i germanici di picche, con l’incarico specifico di far fronte alla cavalleria nemica; infine tremila armati alla romana di scudi e spade con il compito di «fare spalle alle picche per vincere la giornata». Circa la distribuzione ideale di questa fanteria, a suo giudizio capace di superare ogni altra della sua epoca, egli attinge l’idea da una celebre pagina dell’VIII libro della Storia romana ove Tito Livio descrive la composizione e le manovre dell’esercito romano durante la guerra contro i Latini del 338 a.C.. Ogni legione romana, ricorda il Machiavelli, era distribuita su tre file: davanti c’erano gli hastati, quindi i principes e infine i triarii. Inoltre da un lato e dall’altro della prima fila erano collocati i veliti, dotati di armi leggere, e i cavalieri che occupavano le estreme ali. I primi ad ingaggiare battaglia erano i veliti, che allo scopo si trasferivano davanti alla prima linea e, concluso il loro compito, si ritiravano rapidamente usufruendo dei due passaggi lasciati sgomberi fra il grosso della truppa e i cavalieri delle due ali. Soltanto allora gli hastati della prima fila si lanciavano alla carica e, se avevano la peggio, ripiegavano negli spazi lasciati liberi a tale scopo fra i principes, formando con questi una seconda linea d’assalto. Se la seconda fila così combinata cedeva a sua volta davanti al nemico, aveva ancora la possibilità di ripiegare negli spazi predisposti onde accoglierli fra i ranghi dei triarii, veterani agguerriti che trascinavano la linea compatta formatasi attorno ad essi nell’ultimo assalto. Ciò che convince il Machiavelli di questa disposizione e tattica romana è la possibilità d’attuare una battaglia tre volte rinnovata, costringendo il nemico a un’improbabile triplice vittoria, e la regola d’oro che gli sembrava derivarne: moltiplicare le occasioni di vittoria tramite l’allineamento delle truppe in modo da consentire loro assalti successivi. Così come la legione romana si suddivideva in dieci coorti, il battaglione di seimila uomini, unità di base dell’esercito machiavellico, è spartito in dieci più piccole unità dette battaglie. La struttura di ogni battaglia, forte di quattrocentocinquanta uomini, può variare, ma la più efficace, a giudizio del Machiavelli, comporta cinque file di venti armati di picche, quindici formate da venti scudati forniti di spada e scudo, e cinquanta veliti armati alla leggera e distribuiti lungo i fianchi e a tergo. Le dieci battaglie sono ripartite a loro volta in tre schiere: cinque in prima linea, tre nella seconda e due nella terza. I quattromilacinquecento uomini in tal modo distribuiti sono protetti ai fianchi da picchieri straordinari, a loro volta spalleggiati da cinquecento «veliti straordinari». Questi ultimi millecinquecento uomini mobili possono essere dislocati in modo diverso a seconda del numero dei battaglioni simultaneamente ingaggiati nella battaglia: per esempio su un solo lato, allorché due battaglioni combattono affiancati. La fanteria così organizzata rappresenta «il nerbo e la forza dell’armata» machiavellica. La cavalleria e l’artiglieria invece, senza essere trascurate, non svolgono che un compito modesto: centocinquanta cavalieri armati di lancia e centocinquanta leggeri soltanto verrebbero aggiunti ad ogni battaglione di seimila uomini. Circa l’artiglieria, dieci cannoni pesanti bastano ad un esercito per assediare una città, ed un numero indefinito ma non eccessivo di pezzi leggeri da collocare davanti all’armata, oppure sui fianchi, se il terreno offre luoghi sicuri per ripararli dagli assalti nemici. L’attacco prototipo si svolge nell’ordine seguente: anzitutto una scarica d’artiglieria, quindi un assalto congiunto di cavalleria leggera e veliti straordinari, destinato a neutralizzare l’artiglieria nemica; poi, mentre cavalieri e veliti straordinari si ritirano lungo i fianchi, attaccano le battaglie della prima linea, affiancate dai loro veliti armati d’archibugio; dopo il primo impatto, allorché il groviglio del combattimento rende inutili le picche, i picchieri ripiegano lentamente fra gli scudati, che aggrediscono il nemico con la spada. Se questo assalto viene respinto, la prima fila, come accadeva nelle legioni romane, ripiega negli spazi della seconda e intraprende con essa un secondo attacco. Infine le prime due file ripiegate fra la terza possono, se necessario, formare un ultimo fronte compatto contro il nemico.

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Critiche all’«arte»
Non sono mancate critiche alla dotta «arte militare» architettata dal Machiavelli. Gli specialisti si sono spesso beffati della precisione e dell’eccessiva complicazione delle manovre immaginate dall’autore de Il principe sulle scorte d’una poco attendibile pagina di Tito Livio, ove lo storico presentava quale tattica normalmente impiegata dai Romani ciò che era forse soltanto un’esercitazione di piazza d’armi praticamente irrealizzabile in una battaglia. A proposito, si è spesso rispiattellato il celebre aneddoto di Matteo Bandello, narrante come il Machiavelli, in un giorno dell’estate 1526, aveva malauguratamente tentato di tradurre in pratica le proprie teorie. Il novelliere scrive al condottiero Giovanni dalle Bande Nere: «Egli vi deveria sovvenir di quel giorno quando il nostro ingegnoso messer Niccolò Machiavelli sotto Milano volle far quell’ordinanza di fanti di cui egli molto innanzi nel suo libro de l’arte militare diffusamente aveva trattato […] Messer Niccolò quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti secondo quell’ordine che aveva scritto […] Ora veggendo voi che messer Niccolò non era per fornirla così tosto, mi diceste: – Bandello, io vo’ cavar tutti noi di fastidio e che andiamo a desinare. – E detto alora al Machiavelli che si ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini ordinaste quella gente in vari modi e forme con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò». È stato inoltre rimproverato spesso al Machiavelli di non aver attribuito sufficiente importanza alle armi da fuoco, e specialmente all’artiglieria, senza considerare che queste armi non sostituiscono le altre nelle battaglie se non durante gli anni che seguono la redazione dell’Arte della guerra (1520). Se nella battaglia di Ravenna del 1512 lo spostamento laterale dei cannoni del duca di Ferrara consente di prendere il nemico sotto un tiro incrociato di grande efficacia tattica, tale manovra rimane assolutamente eccezionale e ancora per lungo tempo i pezzi d’artiglieria leggera non serviranno, esattamente come nelle battaglie immaginate dal Machiavelli, che a una prima salva poco micidiale. In quanto alle armi da fuoco individuali che, nell’Arte della guerra, sono alternate alle balestre quale corredo di qualche centinaio di veliti e qualche decina di cavalieri leggeri, esse non s’impongono che assai lentamente a partire dal 1520. Invero, anche astenendosi dal partecipare ai rimproveri ingiustificati, è ugualmente palese che la lezione di tattica offerta dal Machiavelli nelle sue opere appare piuttosto una geniale quanto astratta costruzione della mente che insegnamento applicabile nella pratica della guerra. V’è tuttavia un settore ove egli ha potuto offrire l’avvio alla realizzazione delle sue teorie, quello del reclutamento.

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Il reclutamento delle milizie fiorentine
Allorché il Machiavelli scongiura principi e repubbliche d’evitare sia l’impiego di truppe mercenarie che il pernicioso ricorso ad eserciti alleati onde conservare la propria indipendenza, e raccomanda loro insistentemente di organizzare un’armata reclutata esclusivamente fra i propri sudditi, si riferisce all’esperienza, essendo stato incaricato, a partire dal 1506, dell’arruolamento d’una milizia fiorentina. Indubbiamente l’idea non è nuova in quell’epoca, neppure a Firenze dove un partigiano del Savonarola aveva, già alla fine del XV secolo, proposto di creare un esercito formato da campagnoli e cittadini. Inoltre i Fiorentini, in occasione della guerra di Pisa del 1499, e Cesare Borgia sul territorio sottomesso alla sua autorità nel 1501, avevano arruolato contadini. Tuttavia quegli uomini erano stati non tanto autentici combattenti quanto zappatori armati di pale e zappe, incaricati tutt’al più di fare la guardia a qualche villaggio o postazione alle spalle delle linee. La novità della riforma cui è legato il nome del Machiavelli consiste invece nel reclutamento non più di qualche reparto soltanto, bensì di una milizia nazionale permanente d’autentici combattenti. All’inizio del 1506 lo stesso Machiavelli è incaricato d’arruolare contadini della campagna fiorentina e, durante lo stesso anno, è invitato a redigere molti decreti fra cui quello ufficiale che promulgava la creazione d’una fanteria d’almeno diecimila uomini scelti fra i contadini del territorio fra 15 e 50 anni d’età. Sono previste esercitazioni nei giorni festivi, una rassegna pressappoco ogni mese in ciascun distretto e, due volte all’anno, rassegne più importanti. Se i sottufficiali subalterni sono reclutati fra i soldati del luogo, i conestabili invece non devono mai essere compatrioti dei loro uomini e cambiano destinazione ogni anno, onde evitare che abbiano ad acquistare troppo ascendente sulle loro truppe col pericolo di diventare nocivi all’ordine costituito. Analoghe disposizioni verranno assunte sei anni dopo, nella primavera del 1512, quando sarà anche deciso di arruolare un corpo di cavalleria dotato di cinquecento uomini; con la differenza che la legge del 1512 prevede la possibilità d’ingaggiare condottieri stranieri quali capi degli squadroni, mentre i conestabili della fanteria devono essere assolutamente sudditi fiorentini. La pietosa fuga di queste milizie davanti agli Spagnoli nell’estate del 1512, e la caduta della repubblica che ne segue, gettano discredito su un metodo di reclutamento che già annoverava molti avversari. Alcuni denunciano da questo momento alcune gravi tare della milizia machiavellica: anzitutto l’assenza di professionalità dei soldati domenicali di cui è composta, e ancora la mancanza d’entusiasmo causa l’arruolamento forzato. Il Machiavelli, nei suoi scritti posteriori al 1512 (Il principe, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, L’arte della guerra, Le brevi proposte circa il modo di ricostituire la milizia fiorentina, redatte verso il 1522 in onore del cardinale de’ Medici), rimane tuttavia fermo nelle sue convinzioni anti-mercenarie, persuaso che le cause della disfatta delle sue milizie non debbano ricercarsi nell’inesperienza o nella deficienza di combattività bensì nell’insufficienza di cultura militare loro inculcata. Tuttavia, malgrado sia cosciente dell’importanza del morale delle truppe in una battaglia ed insista sulle caratteristiche di trascinatori d’uomini che devono possedere i sottufficiali, nonché sul ruolo benefico che devono svolgere la religione e i giuramenti individuali sopra il Vangelo durante la preparazione etica dei soldati, il Machiavelli elude l’autentico problema proposto dal reclutamento, vantando un poco convincente compromesso, a metà strada fra l’arruolamento volontario e quello obbligatorio, fondato sul rispetto che il sovrano ispira al soldato. Qui risiede senza dubbio il punto debole della sua dottrina e della pratica che suggerisce. Gli si rimprovererà, molti secoli dopo la sua morte e alquanto anacronisticamente, d’aver adottato un sistema di reclutamento discriminatorio, consacrando di fatto la separazione fra la borghesia fiorentina, nella quale sono scelti i cavalieri, e i contadini fanti. Tuttavia il fatto più grave non consiste in questa selezione mutuata dagli antichi Romani che confidavano nella resistenza dei contadini per formare la fanteria e reclutavano la cavalleria fra i cittadini abbastanza ricchi da potersi pagare cavallo ed equipaggiamento, bensì nell’arruolamento (forzato, checché ne dica il Machiavelli) dei contadini in sé, ossia di gente che, nella realtà del tempo e in Italia più che altrove, formava la categoria degli emarginati dalla vita politica e sociale. Come si può chiedere a degli oppressi di arrischiare la vita per una patria che ignorano, in nome d’un bene collettivo al quale sono completamente estranei? La soluzione preconizzata dal Machiavelli per salvare la penisola non sarà valida che molti secoli più tardi, in paesi ove il popolo avrà, o crederà d’avere, motivi per combattere. Essa è prematura nell’Italia del Rinascimento, condannata dalle sue divisioni politiche più che dalla debolezza delle armi a soccombere agli eserciti «barbari» che si affrontano sul suo suolo.

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Una lettura de La novella del Grasso, di Antonio Manetti

 

 

Pubblico qui una versione di un mio articolo sulla novella del grasso legnaiuolo, In: Luiz Marques. (Org.). A constituição da Tradição Clássica. São Paulo: Hedra, 2004, v. , p. 189-208.

Andrea

La prospettiva rovesciata

Una lettura de La novella del Grasso, di Antonio Manetti[1]

 

Andrea Lombardi

Docente de literatura italiana da USP

 

La novella del Grasso[2] è praticamente un racconto unico di Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), esponente poliedrico della Firenze rinascimentale, nel suo molteplice aspetto di matematico, architetto, letterato, considerato in particolare un grande specialista dell’opera di Dante Alighieri, come Galileo Galilei confermerà autorevolmente quasi due secoli dopo[3]. Secondo la critica (op. cit., XVII), almeno tredici sono le versioni ispirate allo stesso tema: una burla realizzata da Filippo Brunelleschi (1377- 1446), architetto, scultore e pittore, e dalla sua brigata ai danni di uno dei suoi componenti, Manetto Ammanettini, il Grasso legnaiuolo, un artigiano intagliatore di ottimo livello. La burla “del Grasso legnaiuolo” è stata attribuita a Manetti solo recentemente, e sarebbe stata redatta nel 1489, cioè quasi 70 anni dopo l’evento famoso: una burla con un’eccezionale diffusione, tanto da far ridere la città di Firenze per molti decenni, dando vita a un numero enorme di versioni scritte. È singolare  che lo stesso Filippo Brunelleschi non ne avesse lasciate che versioni orali. Lo stesso Manetti conferma l’esistenza di varie versioni, a conclusione del suo testo: “E ciascuno che la udì da lui, aferma che sia impossibile el dirne ogni particulare come ella andò… Perch’ella fu raccolta, poi che Filippo morì, da alcuni che l’udirono più volte da lui…”(op. cit., p. 43). Dunque, Manetti affronta una dichiarata impossibilità: da una parte considera la sua testimonianza essenziale, un contributo alla battaglia delle idee, momento dell’affermazione della rivoluzionaria prospettiva, da parte proprio di Filippo Brunelleschi. Nell’incipit della Vita di Filippo Brunelleschi, un testo che fa da contesto alla stesso racconto della burla, Manetti afferma: “Tu disideri, Girolamo, d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che tu amiri tanto, dicendoti io che la fu storia vera…”[4]. La verità affermata dal narratore del tema del suo racconto (della burla, del contesto, dell’ingegnosità di Brunelleschi, del mito che lo circonda, dell’essere l’architetto fiorentino il vero inventore della prospettiva) è, quindi, parte essenziale per la sua comprensione. Gli altri autori delle versioni precedenti della burla vengono criticati per almeno due motivi fondamentali: si tratta di testi incompleti e inveridici, testi che riportavano parte  della burla, ma non il suo insieme, per le stesse dimensioni e per l’attendibilità, poco affidabili (“ma non era el terzo del caso, ed in molti luoghi frementata e mendosa”, ib.p. 43-4[5]).

Diversi sono gli elementi che fanno di questa novella del Grasso una novella sui generis: colpisce subito una singolare omofonia fra Manetto Ammanettini, il Grasso legnaiuolo, vittima della beffa, e Antonio Manetti, autore della versione scritta. Coincidenza questa forse del tutto casuale, poiché Manetti sostiene – difficile mettere in dubbio la sua intenzione – di aver ricostruito la realizzazione della beffa, come era accaduta realmente. Più rilevante è la vicenda di Antonio Manetti, considerato unanimemente discepolo di Filippo Brunelleschi, di cui avrebbe continuato l’opera in alcune costruzioni; inoltre Manetti viene descritto come un “ricercatore di notizie d’ogni genere spettanti la città”[6], un curioso delle cose del passato,  le cose antiche: un “huomo diligente et molto accurato investigatore delle antichità”, definizione questa di G. Benivieni, suo contemporaneo, a cui il testo di Manetti viene dedicato[7]: colui che ricerca nei documenti del passato tramite lo strumento ‘moderno’ della matematica, come nei suoi studi studi, disegni, calcoli, su modelli matematici attribuiti a Dante Alighieri nella idealizzazione del suo Inferno, un tema che appassionerà per molti secoli i letterati, per cui Dante Alighieri non è tanto modello letterario, ma auctor, esempio da studiare e seguire.  Il suo testo sarà pubblicato postumo, nel 1509,  e si intitolerà: Forma e misure dell’inferno di Dante Alighieri[8], per cui il nostro autore verrà considerato unanimemente  il fondatore degli studi sulla cosmologia dantesca.

Manetti occupa dunque nella sua epoca un posto certamente rilevante, che non si limita a quello di autore del testo della burla e della Vita di Brunelleschi, per cui è da noi ricordato. Galileo Galilei si riferisce proprio alle ipotesi di Manetti, come ipotesi degne di rispetto, nelle sue Due lezioni all’accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante[9], il cui esplicito fine è proprio quello di restituire credibilità a Manetti. Galileo afferma letteralmente, a difesa del virtuoso Manetti, “ingiustamente calunniato”:

“Ingegnandoci nel fine, con alcune altre nostre dimostrare qual più di esse alla verità, ciò è alla mente di Dante, si avvicini: dove forse faremo manifesto, quanto a torto il virtuoso Manetti ed insieme tutta la dottissima e nobilissima Academia Fiorentina sia dal Vellutello stata calunniata”.

L’opera di Manetti viene sottoposta a un attento esame:

“Venendo dunque all’esplicazione dell’opinione del Manetti, e prima quanto alla figura, dico che è a guisa di una concava superficie che chiamano conica, il cui vertice è nel centro del mondo, e la base verso la superficie della terra. Ma che? abbreviamo e facilitiamo il ragionamento…

Per Galileo, così come per l’insieme del mondo rinascimentale, Dante è un auctor e va creduto e studiato; i cerchi dell’inferno e le distanze tra il centro della terra e Gerusalemme sono distanze reali da verificare: 

“Aviamo sin qui delle 1700 miglia, notate nella superficie sopra l’arco da Ierusalem alla sboccatura, distribuitene 1000 in assegnare le larghezze a i 6 gradi predetti: restanci dunque miglia 700 da distribuirsi per le larghezze de i cerchi rimanenti, ciò è per Malebolge e per il pozzo dei giganti; la quale distribuzione, perch’io la trovo tanto esquisitamente corrispondere alle larghezze che dal Poeta stesso al pozzo ed alle bolge sono assegnate…

Da qui una prima conclusione, che verrà via via ripetuta, “non senza stupore”, che occorre dare ragione a Manetti:

[Ciò] m’induce, e non senza stupore, a credere, la opinione del Manetti in tutto esser conforme all’idea conceputa da Dante di questo suo teatro.”

“…indubitatamente potremo affermare, con maravigliosa invenzione avere il Manetti investigata la mente del Poeta.”

“…Mirabilmente, dunque, possiamo concludere aver investigata il Manetti la mente del nostro Poeta[10]

Per ben tre volte nel testo Manetti è citato come esempio e ammirato. Galileo si preoccupa di ricostruire la verità delle misure dell’Inferno di Dante, quasi si trattasse di misure naturali, con l’accanimento di Galileo di applicare al passato, così come all’universo presente, il nuovo metro di misura matematico.  Lo stupore di Galileo, quindi, rispetto alle misurazioni di Manetti è determinato dal fatto che  quest’ultimo aveva già trovato e riconosciuto le giuste misure. L’anelito di ricercare la verità nella storia è oggi, quasi cinque secoli dopo, meno importante. É sintomatico che la Vita di Brunelleschi, inizia con un’ideale dedica a Girolamo Benivieni, afferma: “Tu disideri, Girolamo, d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che tu amiri tanto, dicendoti io che la fu storia vera…”[11]. L’accento, nella novella di Manetti, ricade proprio sull’agettivo vera. “Dicendoti io che la fu storia vera”, afferma il narratore a Girolamo. E il testo continua: la novella non dovrà essere letta “come una favola come se ne scrivono molte“. Il narratore ritorna sempre sul suo punto di vista: “perché tu legga la novella come vera”. Il destinatario, dunque, come lettore ideale, viene richiamato a uno sforzo intellettuale. Con lui il narratore stabilisce il suo patto: “e perché, mediante questo caso, col tuo ingegno tu lo penetri tutto, che a te fia assai più agevole che a dimolti altri…” (op. cit.).  Per  Manetti, dunque, la ricostruzione della verità nella storia è fondamentale. La “natta”, di cui si parla nel testo, è una delle molte variazioni semantiche della parola “burla”[12]. Se la burla è di origine incerta e proviene dallo spagnolo, la beffa è parola di origine onomatopeica[13], la giarda, invece, viene dall’arabo e significa, singolarmente, “tumore osseo”, “burla”, “bugia” (Devoto, op. cit.). La trappola viene dal longobardo “laccio”. Nel testo si usa anche uccellare: “andare a caccia di qualcosa con qualsiasi mezzo”, che diviene sinonimo di “ingannare” e, finalmente, appare anche un vignare, la cui provenienza è sconosciuta. Questa significativa varietà semantica, attesta l’uso comune della burla nella società dell’epoca. Si tratta di un’ attività dell’ingegno “moderno”, forma di esercitazione dell’astuzia, della pianificazione, dell’ironia. Con essa, la brigata, o meglio i suoi elementi culturalmente e socialmente egemoni, mostrano il proprio potere  intellettuale. La burla come attività sociale, ma anche come richiamo al modello intellettuale del Decameron di Giovanni Boccaccio. La burla come una forma dell’attività ludica del convivio umano, come una forma di affermare l’ingegno come una nuova retorica, come arma per l’affermazione della gerarchia sociale e culturale della brigata. Si tratta di quella brigata medievale, che già si conosce tramite un episodio famoso nella Divina Commedia (Guido Cavalcanti che snobba la sua brigata che lo persegue) nucleo di una rivoluzione delle classi e superamento delle corporazioni medievali. La beffa ai danni del Grasso, che per noi moderni è di estrema e ingiustificata brutalità psicologica, come si vedrà, avviene apparentemente perché il Grasso diserta – senza giustificazione suficiente – una cena della brigata. Del gruppo fanno parte oltre al leader carismatico Filippo Brunelleschi anche Donatello (Donato de’ Bardi, 1386 – 1466), il cui ruolo decisivo nell’immaginario occidentale è stato enfatizzato da Camille Paglia[14]. Altri membri eletti della società artística della Firenze dell’epoca fanno parte della brigata che, dietro un’apparenza di riunione allegra e conviviale, è carica di un profondo significato sociale:

“Perché era di verno, quando in disparte e quando tutti insieme quivi di varie e piacevoli cose ragionando, conferivano intra loro la maggior parte de l’arte e professione sua” (Manetti, op. cit., p. 3).

Scopo sociale esplicito della riunione, quindi, era la manutenzione dei legami sociali e la realizzazione di un grupo di pressione, lo scambio di informazioni di reciproco interesse e la conversazione su aspetti specifici della propria professione. La coilpa del Grasso è piccola: si tratta di un’assenza a una delle cene del convivio e, per di più,  il Grasso stesso, vittima della burla, aveva anche avvisato un suo amico della sua eventuale assenza. L’offesa  è rilevante ai danni della brigata, tanto più che il Grasso viene descritto come appartenente a un gruppo sociale lievemente inferiore, anche se accolto dai leader carismatici, come il testo afferma:

“infra alle altre cose egli aveva fama di fare molto bene e colmi [tavolette] e le tavole d’altari e simili cose, che non era per allora atto ogni legnaiuolo; ed era piacevolissima persona, come sono la maggior parte de’grassi, e invero più presto aveva un poco del semprice che no…”.

Il Grasso era piuttosto semplice, non tanto e non solo perché ingenuo (si vedrà durante lo svolgimento della beffa); essendo un artigiano, egli è di strato sociale più umile, condizione inferiore a quella degli architetti, pittori e scultori quali Brunelleschi, Donatello e Tomaso Pecori, presso la cui casa la cena era stata organizzata. Pur visto sotto una luce positiva (un semplice, ma piacevole “come tutti i grassi”), reca un’offesa terribile alla brigata, la disonora sopratutto “perché generalmente erano quasi tutti di migliore qualità e condizione di lui”…(p.4). Secondo Nino Borsellino (op. cit., p.74), che riprende il modello di André Rochon,  sono nove gli episodi nella novella. Schematicamente, si tratta 1) della La cena iniziale; 2) Il Grasso lasciato fuori della sua stessa casa; 3) viene organizzato e realizzato il suo arresto; 4) Il Grasso si trova in prigione; 5) A Santa Felicita, dai ‘fratelli ‘ di Matteo; 6) Ritorno a casa e inversione degli oggetti; 7) Le discussioni di S. Maria del Fiore; 8) La rivelazione della beffa; 9) Epilogo.

La  novella è complessa, coinvolge Brunelleschi e Donatelli, rappresentanti autorevoli della Firenze dell’epoca, e deve essere inserita, pertanto, in un contesto culturale maggiore. Lo stesso personaggio di Brunelleschi è complesso, a partire dalle polemiche prese di posizioni che caratterizzao la sua vita e dall’insieme degli aneddoti che ne sono originati. Di Brunelleschi occorre mettere in risalto l’audacia al limite della temerarietà, di cui testimonia la costruzione della cupola di Santa Maria in Fiore, con la sua elevata curvatura e senza l’uso di impalcature. Occorre finalmente considerare che Brunelleschi è stato  l’autore di decisivi studi sulla prospettiva, e che con lui la questione della prospettiva abbandona un trattamento intuitivo, per assumere un aspetto scientifico, avendo inventato la prospettiva matematica (o sistematica) e avendolo esemplificato tramite l’introduzione di un suo personale metodo, conosciuto come quello delle tavolette. Contrapposto dai più a Leon Battista Alberti, autore del De pintura (redatto nel 1435 e tradotto dall’autore in italiano nel 1436), Brunelleschi non ha lasciato scritti teorici, per ragioni sconosciute. Per Júlio Katinsky[15] questa mancanza si deve alla sua lacunosa formazione classica, ma è possibile che il tema non fosse ancora così premente, da dedicarvi uno studio erudito a sé. Antonio Averlino (1400-1469 circa), detto il Filarete[16], autore di un trattato scritto nel 1452, pochi anni dopo la morte di Brunelleschi, è il primo a riconoscere a quest’ultimo il merito dell’invenzione[17]. La descrizione delle tavolette, realizzata in parte nella Vita di Filippo Brunelleschi proprio da Antonio Manetti, deve essere stato un avvenimento sorprendente e che deve aver attirato l’attenzione di tutta la città. Eccone il riassunto fattone da Manetti[18]:

“egli aveva fatto un buco nella tavoletta dov’era questa dipintura … e pareva che si vedessi ‘l propio vero; e io l’ho avuto in mano e veduto più volte a’mia dì, e posssone rendere testimonianza.”

  1. Ironia e prospettiva

 

Si può esaminare la novella dal punto di vista delle analogie tra l’episodio della tavoletta inventata da Brunelleschi e alcuni aspetti dello sviuluppo della novella. Il modello di Brunelleschi si caratterizza per una reductio ad unum: il mondo visto tramite un unico luogo privilegiato, un buco conico nella tavoletta: lo sguardo sul mondo ridotto a un punto di vista unico, calcolabile, terreno e oggettivo, senza più ingombranti influenze religiose, apparentemente senza ne pathos ne ethos. È il mondo come effettivamente è, o come appare. C’è da considerare che il buco da cui guarda Brunelleschi, in fondo, è simile alla  posizione di Brunelleschi come  architetto, realizzatore, voyeur e istrione, che segue controllato e divertito passo passo lo sviluppo della beffa, incamerando il tutto nella sua memoria: “e Filippo aveva tutto bene notato e riposto alla memoria” (op. cit., p. 24) . La tensione del racconto, l’abbondanza dei particolari, la ridicolarizzazione del Grasso fanno pensare alla commedia, poiché l’insieme delle scene è teatrale, così come è teatrale l’inizio della beffa, con Brunelleschi che si fa passare per il Grasso di fronte al Grasso stesso, in un virtuosismo trasformistico da attore di consolidato, in un paradosso inverosimile da situazione veramente estrema (aver scelto proprio il Grasso in questo esperimento temerario è già in sé un elemento dell’ingegno).

L’insieme del testo ci mostra una trasformazione del Grasso, da individuo con una sua storia, un suo nome, delle sue abitudini in un qualcuno radicalmente altro: il Grasso viene costretto  a convincersi che si sta trasformando (o si è trasformato) in Matteo, della cui esistenza era al corrente, ma che non conosceva personalmente. Il procedimento di perdita della sua identità lo porterà, nel corso della novella, a varie posizioni: a) da un opportunismo iniziale (il Grasso pensa: “sarà bene dichiararmi Matteo”); b)  alla paura di essere sottoposto a un’operazione magica (vengono evocate le metamorfosi in Apuleio, con una minaccia di trasformazione irreversibile nell’altro); c) infine, all’accettazione senza più proteste, della nuova identità, segno della sua rassegnazione. A rigore, si tratta di un movimento dal conosciuto e familiare allo sconosciuto e il perturbante, cioè dall’heimlich  all’unheimlich: il Grasso, infatti, ha un carattere allegro, come il testo segnala, vive con la madre nella sua casa, nella sua bottega, nella sua città, nel suo quartiere, con le sue amicizie. Tutto viene brutalmente sacrificato alla logica della burla, specificata dalla novella, in nome di una vendetta che si presenta come un gioco, brutale e cinico, teso e pianificato come un progetto, un orologio, un trattato.

Il rovesciamento della prospettiva, della visione del Grasso, nella novella, equivale al momento in cui lui dovrà dichiarare che ha assunto la personalità di Matteo (o forse non è solo una dichiarazione, il Grasso sarà effettivamente Matteo? In una geniale e precisa mise en abyme, proprio al centro preciso del racconto, il Grasso (che si crede ormai definitivamente Matteo) viene drogato e messo nel suo letto a casa sua, ma all’incontrario, la testa al posto dei piedi. Insieme a lui, tutti i suoi utensili, tutto il suo mondo, verrà rovesciato simbolicamente. Il mondo rovesciato o il mondo al contrario, un simbolo della pazzia che, all’epoca, era associato alle stranezze di Filippo Brunelleschi. Pazzia, a sua volta, come simbolo di un mutamento radicale del punto di vista. Avremo nella novella la precisazione di almeno tre diversi e divergenti punti di vista, tra loro allo stesso tempo incompatibili, interdipendenti e integrativi: quello di Filippo, architetto e realizzatore della burla, quella della realtà, cioè della gente, dell’opinione popolare e pubblica. Infine, quello del Grasso. Manetti insiste sul secondo aspetto, l’aspirazione alla realtà. Nel commenta alle altre versioni della novella, le versioni precedenti alla sua e che rimontavano ai resoconti orali dello stesso Filippo: “sicché qualcuna delle parti molto piacevoli non sieno rimaste indietro, come la raccontava Filippo e come ella era stata invero…”. Come era stata invero, cioè nella realtà oggettiva, più completa della visione dello stesso artefice, Filippo. Infine, e questo è veramente sorprendente e nuovo, si ha nella novella il racconto della prospettiva delle cose dal punto di vista della vittima, cioè dello stesso Grasso, durante il suo processo di trasformazione.

Questa nuova verità sarà un elemento scatenante poiché equivale alla conquista di un mondo nuovo, che è quello psicologico, che si svolge e si realizza – al  contrario della prospettiva matematica – tutto all’interno del personaggio stesso. Quando il Grasso tornerà a Firenze dopo la sua fuga in Ungheria, incontrerà proprio Filippo a Firenze. Sorprendentemente, il Grasso mantiene con Filippo un vincolo che se non è di vera e propria amicizia, sicuramente sarà di ammirazione e rispetto, quasi di stupore per la maestria esibita dall’architetto:

“E venne poi in Firenze più volte in ispazio di più anni per più mesi per volta…gli disse [il Grasso a Filippo] questa novella ridendo continovamente, con mille be’ casi drentovi, che erano stati in lui propio, che non si potevano sapere per altri, e dello essere el Grasso e del non essere, e s’egli aveva sognato, o se sognava quand’egli ramemoriava el passato…” (op. cit., p. 42)

In questo brano (“Essere e non essere il Grasso”) il testo passa improvvisamente da un registro realistico e ironico a un terreno filosofico, quasi esistenziale. L’espressione significa qui probabilmente  la dissoluzione esplicita e pianificata di una “verità”, legata a un punto di vista soggettivo, arbitrario e vuole difendere un nuovo punto di vista, una prospettiva, che favorisca una comprensione dell’insieme dell’universo in maniera omogenea, proprio analogo alla visione delle cose e del mondo che traspare dal foro della tavola… Un foro, un universo, un occhio, un mondo. Un unico mondo possibile, che presuppone l’esperienza di un altro mondo, di un doppio, un mondo “di retro al sol, del mondo sanza gente”, come afferma Dante a proposito della sua revisione iconoclasta e ribelle del personaggio classico di Ulisse[19]. L’esperienza di un mondo dell’unheimlich, o della pazzia, necessaria per raggiungere la totalità.La prospettiva, dunque, agisce sull’immagine come l’ironia come figura retorica: si tratta di un rovesciamento totale che svela il meccanismo della rappresentazione, edifica una nuova visione del mondo e, allo stesso tempo, mette in discussione il mondo così com’è[20].

Nel caso della novella del Grasso la realizzazione della beffa evidenzia la strategia architettonica di Filippo: audace, tesa, temeraria. Lo si vedrà quando gli aiutanti di Filippo metteranno il Grasso di nuovo a casa sua, ma con la testa al posto dei piedi. Il testo commenta: “e loro sapevano tutto, che veghiavano [vigilavano] ogni cosa” (op. cit., p. 25). La strategia di Filippo equivale a mettere a nudo la trasformazione del punto di vista: da quello della realtà (“invero”) a quella di Filippo, a quella del Grasso che si trasforma e diventa Matteo. L’ironia, in effetti, è un fenomeno il cui valore si realizza pienamente nella tensione, che non si può realizzare che in una situazione di intermediazione, aperta a successive interpretazioni, che nel testo si mostra esitante e ancora indecisa (“in una situazione intermedia fluttuante e indecisa” Alleman, op. cit.[21]. In forma analoga possiamo verificare questa tensione fra varie linee che tendono a convergere verso l’infinito, dove il punto di fuga equivale alla mise en abîme del testo, trasmettendo una falsa sensazione di stabilità. Il messaggio letterale non ha più una funzione assertiva. Il contrasto ironico è inizialmente una dissimulazione, elemento rappresentato perfettamente nella novella da Brunelleschi che si finge il Grasso. Nella novella è la parola che ha la funzione principale e l’artificio è destituire la parola del suo valore semantico, fino all’estremo di destituire il nome dal suo significato di riconoscimento. In questo la novella del Grasso sviluppa da una parte il comico, che risale certamente al modello del Decameron di G. Boccaccio (Borsellino, op. cit.). In particolare, quando pone l’accento sul motto di spirito (il Witz freudiano), nella sesta giornata. In Manetti, però, l’obiettivo dell’indagazione. non è più la parola arguta, ingegnosa, spiritosa, ma la parola limite, la frontiera dell’umana percezione, il mondo sanza gente, di retro al sol.

  1. L’ambiente

 

L’ambiente nel quale si svolge la beffa è quello naturale dei personaggi, tipico per Firenze, centralissimo e caratterizzato da almeno due luoghi legati all’attività di Filippo: S. Maria in Fiore e Santa Felicita, luogo d’incontro della brigata il primo, luogo in cui il Grasso “diviene l’altro”, il secondo. Dal 1409 Brunelleschi era stato attivo nel cantiere di Santa Maria del Fiore, mentre a Santa Felicita risulta che abbia lavorato; proprio Manetti è considerato il suo continuatore in questa costruzione. Il 1409 è significativamente  lo stesso anno della beffa e Giorgio Vasari nelle sue Vite racconta che Filippo aveva affidato a un intagliatore chiamato Bartolomeo la costruzione di un modello di legno. Il progetto di Filippo per la cupola di S. Maria del Fiore vince il concorso del 1418 e nel ’23 gli fu affidata la completa responsabilità dei lavori. Il      completamento di questa opera chiave, basata su una tecnica che permetteva      di realizzare l’enorme cupola senza bisogno di armature, occupa quasi l’intero arco della sua vita e getta le basi dell’architettura rinascimentale. Conclusa nel ’34 la struttura, nel ’36 fu messa in opera la lanterna di completamento, realizando una delle più grandi imprese del Rinascimento. Il cantiere tenne impegnati per anni i fiorentini in dibattiti e concorsi e, una volta realizzata grazie al genio di Filippo Brunelleschi, diventa il simbolo stesso della città e           della nuova, rivoluzionaria, architettura rinascimentale: realizzare e coprire uno spazio di 45,5 metri di diametro senza armature su cui poggiare era veramente impensabile prima di allora.

È qui che occorre valutare la centralità della figura di Brunelleschi e la forza di suggestione delle sue ‘trovate’ audaci, tra cui quella della prospettiva. La beffa ai danni del Grasso può essere vista anche come una temeraria iniziativa, una ‘lotta di carattere ideologico’, per far piazza pulita delle concezioni tradizionali e conservatrici e affermare la nuova visione, quella della prospettiva matematica. La tensione, l’architettura della novella, i suoi punti estremi (la mise en abîme a metà del testo e l’ipotesi di uno specchio ideale, nella novella): tutto fa credere a un modello analogico, costruito per rendere più accettabili e credibili gli enormi cambiamenti che la nuova visione matematica attraverso la prospettiva avrebbero portato.

Il testo sottolinea l’ ammirazione e il rispetto che il lettore ideale (una proiezione del pubblico ideale dell’epoca) aveva per Brunelleschi: “Tu disideri, Girolamo  d’intendere chi fu questo Filippo che fece questa natta del Grasso, di che ti amiri tanto,”(op. cit., p.47). Brunelleschi ammirato come genio rinascimentale carismatico, ma anche temuto per la sua follia. Dice di lui Vasari[22]:

“Parve a’ Consoli, che stavano ad aspettare qualche bel modo, et agli operai et a tutti que’ cittadini, che Filippo avessi detto una cosa da sciocchi, e se ne feciono beffe ridendosi di lui, e si volsono, e li dissono che ragionassi d’altro, che quello era un modo da pazzi, come  era egli. Del che, parendo a Filippo di essere offeso, disse….

[ c’è un processo ?…] Laonde, licenziatolo parecchi volte et alla fine non volendo partire, fu portato di peso da i donzelli loro fuori dell’audienza, tenendolo del tutto pazzo. Il quale scorno fu cagione che Filippo ebbe a dire poi che non ardiva passare per luogo alcuno della città, temendo non fussi detto: “Vedi colà quel pazzo”. Restati i Consoli nella audienza  confusi, e da i modi de’ primi maestri difficili, e da l’ultimo di Filippo, a loro sciocco, parendoli che e’ confondessi quell’opera con due cose: l’una era il farla doppia, che sarebbe stato pur grandissimo e sconcio peso, l’altra il farla senza armadura.” (sott. mia)

  1. La pazzia.

 

La pazzia costituisce, dunque, un elemento che nella novella appare insistentemente. È anzi l’elemento conduttore della vera e propria trasformazione del Grasso, da Manetto Ammanettini a Matteo e viceversa. Insieme alla questione dell’identità, costituisce il nucleo centrale del testo. “Filippo finse che chi parlassi fussi quello Matteo che volevano dare a ‘ntendere al Grasso che fussi diventato…” (op. cit., p. 8). Il capolavoro  architettonico di Filippo si realizza tramite una costruzione più complessa. Il Grasso, evidentemente influenzabile (lo sarà durate tutta la sua storia) dichiara: “e’ mi pare che costui che è su sia me…” (ib.),. Poi rimane come stupefatto  e come smemorato e.. si cominciava quase a dare a ‘ntendere d’essere”, (op. cit., 9), cioè comicia già a credere di essersi trasformato. In prigione, dove “quasi per certo gli parve essere un altro” (op. cit.10, sott. mia) fino a che debb’io fare s’io sono diventato Matteo… E in su questi pensieri, affermando ora d’essere Matteo e ora d’essere ‘l Grasso” (op. cit., 11). Una deliziosa storia presa dalle Metamorfosi di Apuleio, raccontatagli da messer Giovanni da Prato in prigione – qui appare l’elemento fortuna in aiuto all’ingegno – finisce per imporre al Grasso la paura di non poter mai più ritornar a essere il Grasso. La pazzia è simbolizzata nella novella dal rovesciamento di tutti gli elementi del mondo del Grasso, dopo essere stato drogato.

“Entrò subito in una fantasia d’ambiguità, s’egli aveva sognato quello, o se sognava al presente (op. cit., p. 26)… E uscito de letto… vide in comune ed in particulare tutte le masserizie travolte. Ed essendo ancora nello inistrigabile pensiero di camera, veduto questo, in un punto da nuovi pensieri fu assalito, cancellando tutti que’ vecchi.“ (op. cit. 27, sott. mia)

Questo rovesciamento letterale (che allude a quello simnolico) è opera degli aiutanti di Filippo, che avevano messo  il Grasso nel suo letto, da capo a pie’. Gli stessi aiutanti capovolgono il luogo dei suoi utensili:

“[I suoi] ferramenti da lavorare tramutarono da uno luogo a un altro; e così feciono de’ ferri delle pialle, mettendo dove stava el taglio di sopra… tutta la bottega travolsono, che pareva vi fussino stati dimoni: e trambustato ogni cosa, riserrarono la bottega…” (op. cit., p. 26, sott. mia).

Sarebbe facile collegare questo rovesciamento, specialmente con l’ausilio del demonio evocato, alle teorie di Bakhtin sul carnavalesco. Eppure, a quel che sembra, la pazzia simulata (dal Grasso, all’inizio), evocata (l’effetto vero di una privazione dell’identità, cioè del mondo), allusa (la pazzia in quanto audacia di Brunelleschi) sembra costituire un messaggio autoreferenziale sul linguaggio stesso della rappresentazione, cioè la scelta di un cammino irreversibile che la prospettiva apre. Come il superamento delle due colonne d’Ercole, anticipate dal viaggio di Ulisse nella Commedia di Dante Alighieri e effettivamente lasciate indietro pochi decenni dopo nell’impresa Atlantica.

  1. 4.     La nascita del narratore onnisciente: i precedenti letterari de La novella del Grasso

 

Il testo della novella allude esplicitamente alla novella di Calandrino, il pittore disastrato del Decameron di Giovanni Boccaccio. “La città di Firenze ha avuto molti uomini sollazzevoli e piacenti ne’ tempi adietro”, afferma Manetti. E la novella VIII, 3 “Nella nostra città, la quale sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino…”[23]. Il Grasso esclama: “Ohimé! Sarei io mai Calandrino, ch’io sia sì tosto diventato un altro sanza essermene avveduto?” (p. 9), segno che la parentela con il Decameron non vuole essere assolutamente occultata. Al di là del fatto che Calandrino non si tramuta in un altro, ma sparisce (nella novella di Boccaccio Calandrino e l’eliotropia), il Decameron è evidentemente il grande modello di una novella che, paradossalmente, vuol essere estremamente realistica. Al Decameron, comunque, attingono commedie e teatro rinascimentale, come già mostrato con l’esempio di Calandrino. Ma che si tratti di Calandrino, insieme a Buffalmacco e Giotto, gli unici tre pittori protagonisti nelle novelle del Decameron, è ancora più interessante. La novella sgrana così un fronte consistente di ambiguità o ambivalenze: si tratta di un testo letterario con pretese storiche, o la pretesa storica è solamente una proclamata illusione referenziale (obbligatoria dato il tema?). In fondo, conosciamo già da T. Todorov il ragionamento sulla fiction applicata alla storia, in Morales de la história[24], quando mostra che, sì, il testo attribuito a Amerigo Vespucci avrebbe potuto essere stato scritto da un ghost writer della Firenze medicea dell’inizio del Cinquecento, per cui l’America, nome dato al Continente conquistato, è un nome di fatto illegittimo.

Nel testo fa capolino anche la tensione sviluppata dalla querelle fra letteratura e pittura, nella contrapposizione evocata fra Giotto e Boccaccio, fra il pittore più noto del Trecento e la sua aspirazione al vero (come dice il narratore Boccaccio nelle conclusioni dell’autore del Decameron) e lo scrittore che Boccaccio sa di essere aspirante a testimone della storia dell’epoca. Tanto più perché nel caso di Filippo Brunelleschi e di Manetti,  stesso la pittura, insieme alla scultura e all’architettura, costituiscono la base, il contesto di vita e di lavoro dei personaggi, sia nella vita ‘reale’, che in quella della burla, che la rispecchia. La doppia tensione attribuisce al testo una vivacità culturale e spinge a cercare altre valenze possibili, di un testo. Riappare nella novella la querelle fra Giotto e Boccaccio, evocata tramite il personaggio del pittore Calandrino, e che trova nelle Conclusioni del narratore Boccaccio la sua esplicitazione[25]. Inoltre dai critici[26] viene ricordata la parentela con Geta e Birria  di Ghigo d’Attaviano Brunelleschi e Domenico da Prato (del sec. XII), a loro volta un rifacimento da Plauto: Geta, ossia il dio Aracde torna dal porto, trova l’uscio sbarrato e ha un colloquio con il finto Geta. Si tratta, dunque, paradossalmente, di una novella che partendo da aspirazioni iperrealiste, assume  una proposta, allusioni e riferimenti iperletterari. Difatto, si può affermare che con la novella del Grasso nasce il narratore onnisciente, colui cioè che – grazie alle dritte del Grasso trasmesse a Filippo e da questi ritrasmesse ai posteri, ai lettori – conosce la psicologia del Grasso, quella di Filippo e quella del mondo di Firenze dell’epoca. In effetti, la novella del Grasso, con la sua aspirazione al realismo ‘obiettivo’(come la prospettiva), si richiama, in due punti decisivi, a modelli letterari precedenti.

  È proprio questa l’epoca che ha creato l’illusione referenziale, di cui parla il critico Michael Riffaterre: « Il testo poetico è autosufficiente: se esiste un riferimento esterno, non si tratta di una riferimento al reale, al contrario. Non ci sono riferimenti esterni che ad altri testi.“[27]. L’idea di reale, contesto, mondo, referenzialità nel Rinascimento è certamente differente dalla nostra, così com’è difficile definire qual’è attualmente la nostra nozione di reale (postmoderna, poststrutturalista, decostruzionista oppure, influenzata dagli gender studies). Si può affermare che nel Rinascimento avviene la costruzione di un modello, che sarà decisivo per l’affermazione del nostro modo di ‘vedere’, percepire, riprodure a) la ‘realtà’, ammettendo che esista o che abbia senso usare una tale categoria, b) quello che noi di volta in volta possiamo definire ‘realtà’. Prendiamo per es. il concetto lacaniano di reale. Il reale per Lacan è il reale della nostra mancanza, del fatto che noi non siamo [28]. Il reale è un termine negativo, qualcosa di irraggiungibile (almeno senza l’aiuto dell’analista). Il testo realista, pertanto, non è fedele alla realtà referenziale, bensì al genere stesso, in quanto insieme di procedimenti formali il cui obiettivo è l’effetto del reale: motivazione, coerenza, descrizione, ecc. La relazione che si stabilisce fra il pittore rinascimentale e il suo fruitore è assimetrica, poiché l’illusione referenziale maschera l’illusione di essere confrontato con “la realtà così com’è”, senza più la mediazione.

         La novella, il narratore lo sottolinea, dovrà essere considerata vera, il paragone sono le favole, frottole, menzogne, inverità che vengono seminate. Menzogne anche a proposito di una questione fondamentale che a Manetti sta a cuore: chi è stato il vero inventore della prospettiva. La cura con cui le date vengono esposte mettono in chiaro questo aspetto. Il vero motivo per saperne della vita di Brunelleschi non è la sua importanza, ma il fatto di essere stato autore della natta. La vita, dunque, in funzione di contesto, di corollario. Una specie di focalizzazione assoluta: i riflettori sono proiettati sulla burla, sulla sua rappresentazione, non sul personaggio, anche se questo dominerà in maniera incontrastata il racconto.

Nell’epilogo, il narratore Manetti appare e si inserisce in una lunga lista di redattori della stessa storia, raccolta dopo la morte di Brunelleschi. Scritta, secondo Manetti, da almeno altri nove redattori e “da molti altri…”. Tra questi ci sono il fratello di Masaccio e Luca della Robbia. Feo Belcari è l’unico letterato del gruppo dei redattori della burla. Manetti, dunque, pur non essendo un testimone “oculare” riesce a trasmettere alla posterità due terzi sconosciuti della storia, che altrimenti sarebbero andati perduti. E lui stesso ci garantisce, contrapponendo qui menzogna alla verità di “una storia vera”, affermata all’inizio del testo della burla, di essere afidabile e onesto (“la storia vera che si dice…la Novella del Grasso, op. cit. p. 77), una storia narrata con precisine e puntiglio, quasi con pedanteria.

5, ut pictura poiesis

In fondo, la Novella del Grasso potrebbe essere messa in un punto preciso e infinitesimale (3 millimetri è, precisamente, la larghezza del foro nella tavoletta), un punto d’incontro fra pittura e poesia, nel senso della letteratura nel suo insieme. L’ipotesi del presente testo è che la giustapposizione è possibile proprio in un momento di enormi cambiamenti, nel contesto dell’epoca: le colonne d’Ercole verrano travalicate dopo pochi decenni; la commedia assume una forma stabile e così la narrativa; si ha, infine, una distanza concettuale fra interpretazione della realtà e trascendenza. L’introduzione della prospettiva che è certamente un movimento di vari decenni e forse secoli, che s’intravvede già in Giotto e in altri pittori, diviene adesso imprescindibile, proprio per la vocazione spaziale e meno temporale del mondo. È vero sì che la prospettiva non corrisponde, come afferma, a una vera obiettività. Come afferma Pierre Francastel in Burke Cultura e società nell’Italia del Rinascimento (op. cit., p. 35): ”La prospettiva lineare non corrisponde ad un progresso assoluto dell’umanità verso una rappresentazione sempre più adeguata del mondo esterno su una superficie bidimensionale; è un sistema di convenzioni come qualunque altro”. Contrariamente al movimento di ascensione relativa della pittura in rapporto alla letteratura, qui la letteratura fornisce un modello di comprensione, un’anticipazione rispetto ai grandi movimenti che verranno introdotti, un’esercitazione concettuale per la realizzazione di grandi compiti a cui i contemporanei e i posteri saranno sottoposti. Non tanto, quindi, e non solo un conflitto e una tensione fin dal tempo di Orazio e, prima ancora, di Simonide (citato da Harald Weinrich nel suo Lethe), o un’opposizione come quella tra Boccaccio e Giotto, quanto un punto di sutura tra un ieri (senza prospettiva e senza mondo unitario) e un domani che non potrà essere visto senza prospettiva o che senza questa rimarrà incomprensibile, incompleto, muto.

Una possibile indagazione futura

 

Panovsky afferma che “manca all’antichità continuità e concetto di infinito”[29]. Un’affermazione interessante che permette di ventilare un’ipotesi audace: che il concetto di infinito sia stato introdotto dalla tradizione culturale ebraica, già in contatto da centinaia di anni con quella occidentale. Nella tradizione occidentale, però, in contrasto con il concetto di a-peiron, cioè non-finito della tradizione greca, esiste la tradizione ebraica, nella quale affiorano tre elementi: 1. Una scrittura alfabetica, che afferma una religione alfabetica monoteista (come afferma Jack Goody). 2. il principio della permutazione delle lettere (in particolare con Abraham Abulafia, ma anche nella tradizione del Golem). 3. Il nome di Dio[30] che viene legato al concetto di infinito, En Sof dei cabalisti. L’infinito, dunque, nella tradizione ebraica, è un concetto astratto, ma positivo, legato a un potere enorme, il che gli permette di entrare nella tradizione occidentale come simbolo positivo. Un’ipotesi tutta da dimostrare, in un mondo delle certezze. Per concludere: la pittura e la letteratura nella loro fase dello specchio[31].

Nel corso del racconto, il contesto della beffa viene significativamente arricchito da una serie di varianti sgargianti: lo stesso termine beffa, di origine etimologia incerta o onomatopeica, si arricchisce con una grande varietà di sinonimi, attestati da vari dizionari:

natta, con una significato origine incerta [dallo spagnolo]

giarda: dall’arabo: tumore osseo, burla, bugia

uccellare: andare a caccia di qualcuno con qualsiasi mezzo = ingannare, ma  anche, con il significato, in portoghese:  “guardar sempre alguma perturbação” (op. cit., p. 113, o nell’originale (“chi una volta comincia a dare questi segni… sempre è uccellato”, p. 20)

vignare (non presente sul dizionario).


[1] Pelo contexto da mesa-redonda do encontro do Projeto Cicognara (Unicamp, setembro de 2002), o texto da comunicação foi apresentado em língua italiana e nesta língua está sendo reapresentado aqui. 

[2] La novella del Grasso In Antonio [di Tuccio] MANETTI.  Vita di Filippo Brunelleschi [Intr. G. Tanturli. Note Domenico De Robertis] . Milano: Il Polifilo, 1976. Si tratta di un’edizione critica che conferma l’attribuzione del testo all’architetto fiorentino, pur senza una prova definitiva (si vedano le osservazioni a  Introduzione, XIV).

[3] ??

[4] Le citazioni saranno, d’ora in poi, da Manetti, Antonio. Vita di Filippo Brunelleschi. Preceduta da La novella del grasso. Ed. critica: Domenico de Robertis. Intr. e note.: Giuliano tanturli. Milano: Il Polifilo, 1976. Op. cit., p. 47

[5] Non era, non conteneva che un terzo della burla, ed in molti aspetti si trattava di testi frammentari e inesatti.

[6] Michele Barbi, in Nino Borsellino. La tradizione del comico. Milano: Garzanti, 1989,  p. 69-70

[7] Op. cit., in Intr. Vita, XV

[8] Cristoforo Landino e Girolamo Benivieni, primi editori della Commedia di Dante Alighieri, riporteranno i risultati di queste ricerche nelle edizioni del 1481 (Nicolo di Lorenzo della Magna) e del 1506 (Firenze: Filippo Giunti). Girolamo Benivieni pubblicherà nel 1506 il Dialogo circa al sito, forma e misura dell’Inferno di Dante di A. Manetti.

[9] In GALILEI, G. Scritti letterari. Firenze, 1970 [ a c. di A. Chiari]

[10] Op. cit.                                                                                                                                                                                   

[11] Le citazioni saranno, d’ora in poi, da Manetti, Antonio. Vita di Filippo Brunelleschi. Preceduta da La novella del grasso. Ed. critica: Domenico de Robertis. Intr. e note.: Giuliano tanturli. Milano: Il Polifilo, 1976. Op. cit., p. 47

[12] DEVOTO, Giacomo. Abvviamento all’etimologia:

[13] DEVOTO, op. cit. beff : “interiezione dispregiativa”.

[14] Per questa autrice, in Sexual Personae, il Perseo di Cellini (1550) è influenzato dal Davide di Michelangelo (1510), che a sua volta ha come modello il Davide di Donatello (1430-32), un singolare esempio di androgino. La Firenze dell’epoca è dunque alla prese con la costruzione di un modello della cultura occidentale, ostentato al centro della piazza.

[15] Júlio Roberto Katinsky: : “Um experimento com a Ciencia e Tecnología dos primeros anos do Quatrocentos  em Florença” Ciencia e Cultura, 34 (10): 1317-1339

[16] Il nome Filareteè un “nome d’arte” e vuol dire  in greco “amante della virtù”. Lavorò alla progettazione di “Sforzinda” una città ideale per Francesco Sforza a pianta stellare con al centro una torre alta dieci piani detta “la casa del Vizio e della Virtù” per aver al pian terreno una “casa chiusa” e all’ultimo piano un osservatorio astronomico.

[17] Júlio Katinsky, op. cit.,  p. 1318 e Giuliano Tanturli, in A. Manetti. Vita di Filippo Brunelleschi, op. cit., p. 55, nota 1: “solo il Filarete aveva dato pieno riconoscimento ai meriti del Brunelleschi come inventore della prospettiva…”

[18] Katinsky, op. cit.,  p. 1338-9 e Manetti, op. cit., p. 58-9.

[19] Inferno, XXVI, verso 117. Si veda, a questo proposito, la lettura realizzata da Piero Boitani. ???

[20] Nata come termine filosofico (si veda, tra gli altri: ALLEMAN, Beda: “De l’ironie en tant que principe littéraire”) – in Aristotele si trova, infatti, nell’Etica e non nella Retorica o nella Poetica – l’ironia diviene gradualmente una figura retorica, pur conservando l’elemento filosofico legato al concetto. Come figura, l’ironia può essere definita tradizionalmente la forma di dire il contrario di ciò che si afferma “letteralmente”,  dunque con una trasparenza per l’interlocutore di questo secondo piano. L’ironia presuppone un patto con il lettore, poiché essere a conoscenza del suo uso è condizione della sua corretta interpretazione (così come nel circolo ermeneutico la comprensione si deve a una precomprensione di carattere intuitivo). L’elemento di autorappresentazione,  più caratteristico della versione romantica dell’ironia, è già presente però nella sua caratteristica di svelare più piani o livelli del discorso, che entrano fra loro in competizione e in tensione permanente.

[21]Nel testo originale: “in einer schwebend-unentschiedenen Zwischenlage”.

[22]Vasari, G.  Le vite de più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino – Firenze 1550 di Giorgio Vasari.   Filippo Brunelleschi. Scultore et Architetto. ???

[23] Nella p. 3 si fa l’esempio anche di Sacchetti, Trecentonovelle, novella CXXXVI.

[24] TODOROV, Tvetan. Las morales de la historia. Buenos Aires: Paidos, 1993.

[25] Parlando evidentemente di Giotto, Boccaccio afferma nelle C[onclusioni dell’autore del Decameron:  “Sanza che alla mia penna non dee essere meno d’autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.” BOCCACCIO, G. Decameron, ed critica a c. di V. Branca. Torino: Einaudi, 1992.  

[26] Giuliano Tanturli, in MANETTI, op. cit. ,  p. 8 Nota

[27] “ Le texte poétique est autosuffisant : s’il y a référence externe, ce n’est pas au réel, loin de là. Il n’y a de référence externe qu’à d’autres textes. “    RIFFATTERRE, Michelle “A ilusão referencial In ______ et alii. Literatura e Realidade: Que é o Realismo? Lisboa: Dom Quixote, 1984.

[28] Si veda: Sergio Benvenuto, in testo inviato gentilmente dall’autore. Jacques Lacan. O Seminário. Livro 11 Os quatro conceitos da psicanálise. Rio: Zahar, 1988, cap.V,  p. 55 e seg..

[29] Renascimento e Renascimentos na Arte Ocidental. Lisboa. Ed Presença, 1981

[30] vedi G. Scholem. Le nome et les symboles de Dieu

[31] Hubert DamischThe origin of perspective, p. 116

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per il 26 maggio: cosa c´è da fare (leggere)

Miei carissimi,
mentre aspetto che mi mandino il resoconto (Diogo? ), confermo a tutti il seguente.
 
Entrate nel Blog!  Entrate nel Blog ! iscrivetevi al Blog! (intervallo pubblicitario…..)
 
Per mercoledì scorso c´era da leggere il testo di De Sanctis. pochissimi l´hanno letto. Ho potuto abbordare molto poco, con questa premessa.
 
Per mercoledì prossimo, 26 maggio, c´è da leggere La novella del grasso legnaiuolo, una burla, reallizata da Brunelleschi (l´inventore della prospettiva, insieme a Leon Battista Alberti).
 
Alcuni  mi hanno chiesto di anticipare cosa ci sarà da leggere (fino alla fine del semestre): è semplice!
 
Il principe (tutto)
 
La Mandragola (tutta)
 
Chiedo:
 
1. Una scheda di lettura de La novella del Grasso Legnaiuolo
 
2. Una scheda di lettura di un´opera di Machiavelli (1-2 p.)
 
3. Una piccola monografia sull´altra opera di Machiavelli (5 cartelle)
 
 
Non voletemi male, ma faccio mie le parole di quel docente che diceva che “la letteratura è possibile impararla solo leggendo. La maniera migliore di leggere è scrivere comunicazioni e monografie”.
 
Ciao
Andrea

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Muore Edoardo Sanguineti, il maggiore poeta italiano vivente

 

Edoardo Sanguineti

Io tendo sempre più ad insistere sul momento anarchico come momento di pulsione della grande arte critica del Novecento. Se questo momento ha trovato incarnazione, non è stato tanto nella forma della canzone “all’italiana”, quanto piuttosto nelle esperienze di certo rock violento e oggi, semmai, del rap e di altre espressioni di questo genere

da: Laborintus / Edoardo Sanguineti. – Magenta, 1956; e: Feltrinelli, Manni

5.

il livello mentale virtuale si abbassa questi paesi sono prosciugati
da prolungate speculazioni promuovo l’agitata soluzione isagogica
della tua congestione nella Terra Pacis con una orazione
in specifico ordine (tabulae motuum) in ragionevole bellezza
quod istius operis volta al particolare non est simplex sensus
in una parola subiectum est homo organicamente totius operis
mediante l’invenzione di un corpo l’elasticità
non più unilateralmente teoretica di una fenomenologia spaziale
per rigida paralisi belle donne voi siete spazio la bellezza
per cui si discorre velocemente non deve avere un senso
ma molti sensi estesi
tagliata in sezioni che non muovono
dalla modalità doverosa (dunque moralità) eventuale
del nostro atteggiamento ma della sua apprensione discorsiva
alta (dunque erettiva) eruzione del tatto perché la vita è così insufficiente
ma perché oggettivamente qui potenzialmente collettivamente irresistibile
della sfaldabilità di un pietroso vigore della linea sia fondamentale
essa o complementare ma forte sia linea e linea
di avventura
io voglio conoscere (non importa se non puoi sognarmi)
ho formulato molte ipotesi per vivere parlo di conferire decoro
al mio processo penso a un decoro muscolare tattile abile di irritabilità
penso a troppe vibrazioni (penso) non mi ascoltano più
e parole
ancora tagliano le labbra (io sono qui con un virtuoso discorso)

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aporia (termine dal dizionario in portoghese)

APORIA

 de http://www2.fcsh.unl.pt/edtl/verbetes/A/aporia.htm

[Do gr. aporia, “caminho inexpugnável, sem saída”, “dificuldade”.] 1. Dificuldade, impasse, paradoxo, momento de auto-contradição ou blindspot  que impede que o sentido de um texto ou de uma proposição seja determinado. Na filosofia grega antiga, o termo começou por servir para designar contradições entre dois juízos (o que se chamaria depois, com mais propriedade, antinomia). Na filosofia de Zenão de Eleia, por exemplo, podemos falar de aporias nos juízos sobre a impossibilidade do movimento. Mais tarde, designaram-se alguns diálogos platónicos como “aporéticos”, isto é, inconclusivos. Ao estudo das aporias chama-se aporética. Aristóteles definirá a aporia como uma “igualdade de conclusões contraditórias” (Tópicos, 6.145.16-20).

O termo é utilizado com frequência por alguns descontrucionistas como Jacques Derrida e Paul de Man, que, de alguma forma, são responsáveis pela sua imposição dentro da teoria literária pós-estruturalista. A aporia é identificada pela leitura desconstrutiva do texto, que terá como fim mostrar que o sentido nele inscrito atingirá invariavelmente o nível da indeterminação ou da indecidibilidade.

Uma aporia cria uma tensão lógico-retórica que impede que o sentido de um texto se possa fixar. Um texto, por definição, conterá sempre aporias que servirão para mostrar que um texto pode querer dizer algo que escapa a uma qualquer leitura convencional. Nem o texto nem o seu autor estão obrigados a ter conhecimento prévio ou consciência da presença de aporias. Compete ao leitor, pela desconstrução – se se quiser, segundo os exemplos de Jacques Derrida e Paul de Man – identificar tais impasses. Os efeitos do que  na desconstrução de Derrida se chama différance dependem da presença inquietante destas aporias.

Na aporia clássica de “Aquiles e a tartaruga”, diz-se que o veloz Aquiles nunca conseguirá alcançar a tartaruga, porque, quando o atleta chegar ao lugar em que a tartaruga se encontrava no momento da partida, o animal terá tido tempo de mover-se e alcançar uma determinada distância, e por aí fora. Podemos encontrar o mesmo tipo de aporia no pensamento religioso de António Ramos Rosa, por exemplo. No artigo “Deus e a natureza humana”, publicado pelo Poeta no Jornal de Letras, em 29 de Junho de 1931, afirma-se que Deus é o universal e, porque o é, a natureza humana participa da sua divindade. Se quiser demonstrar que esta proposição é aporética, procederei da seguinte forma: se eu participo da natureza de Deus é porque sou seu semelhante ou vice-versa. Neste caso, eu devo ser tão real como Deus e vice-versa. E real deve ser sinónimo exclusivo de natural. Eu também sou tão universal quanto Deus, pois me é dada a possibilidade de participar da sua universalidade. Ora, o homem é, por rigor ontológico, o mais individual dos seres, pelo que a aporia que daqui nasce – um ser individual participar da natureza de um universal, seu contrário e seu semelhante, seu sol e sua noite – ergue desde logo um obstáculo impossível de vencer. Este tipo de leitura aproxima-se do que se convencionou chamar desconstrução: toma-se o texto (literário ou não) como um conjunto de potenciais oposições internas que hão-de conduzir irremediavelmente a uma aporia; nesse momento, o texto obriga a uma tomada de decisão crítica perante as duas leituras opostas e, quase paradoxalmente, uma leitura desconstrucionista será aquela que não deixar que tal decisão penda para qualquer dos lados. Uma crítica imediata a este tipo de abordagem textual é que chama a atenção para o círculo viciado das leituras desconstrucionistas: perante um texto, mais tarde ou mais cedo, surgirão aporias, momentos em que a lógica interna do texto falha.

De alguma forma, a prática desconstrutiva de leitura das aporias de um texto ou proposição central no pensamento de um autor não difere do método platónico, sobretudo dos diálogos aporéticos como Laques ou Ménon. Num diálogo aporético não se chega nunca a uma definição do tema central – a coragem e a virtude, respectivamente -, mas só pela refutação de todas as tentativas de definição se pode estar em condições de dizer alguma coisa (“de científico”) sobre aquilo que se quer discutir. O método socrático vale para uma leitura crítica de um texto literário, no qual devemos reconhecer que as aporias têm uma função heurística: da mesma forma que o interlocutor de Sócrates só estará em condições de  aprender quando se der conta da sua ignorância, assim o leitor perante o texto só deve ter a pretensão de progredir para a compreensão do seu sentido quando demonstrar que as aporias que o caracterizam impedirão sempre que esse sentido seja uno e finito. Da mesma forma que o método aporético de Sócrates pressupõe a purificação da falsa sophia do interlocutor, assim o leitor deve “purificar” o texto das suas dificuldades, deixando sempre abertas as portas da significação. De notar ainda que também Aristóteles viu a metafísica como uma ciência diaporemática, ou seja, como um conjunto de questões cuja principal característica é o facto de constituírem dificuldades. Na metafísica (e no trabalho teórico-crítico sobre literatura, devemos acrescentar), não há resultados finais e dogmáticos, mas apenas interrogações e problemas à espera de refutação e discussão. Em ambos os casos, na filosofia e na literatura, o trabalho aporético deve ser conduzido de forma a não procurar dificuldades como num jogo de adivinhação, mas a problematizar todas as aporias para que se chegue a um resultado mais seguro e consistente.

 

2. Como figura de retórica, a aporia diz respeito àqueles momentos em que uma personagem dá sinais de indecisão ou dúvida sobre a forma de se expressar ou de agir. O melhor exemplo é o célebre solilóquio de Hamlet, de William Shakespeare, consagrado na expressão “to be or not to be” (Acto III, 1). O registo retórico do termo é ambíguo e definido quase sempre por aproximação. Puttenham, atesta o Oxford English Dictionary, refere-se-lhe desat forma: “Aporia, or the Doubtfull. So called (. . . ) because often times we will seem to cast perills, and make doubt of things when by a plaine manner of speech wee might affirme or deny him.” (English Poesie, 1589). Caso comum é o dos poetas cuja vida se lhes apresenta como uma indecisão ou irreversível aporia, geralmente em situações de conflito interior ou crises de personalidade. Veja-se o exemplo de Álvaro de Campos: “Ah, as horas indecisas em que a minha vida parece de um outro. . . / As horas do crepúsculo no terraço dos cafés cosmopolitas! / Na hora de olhos húmidos em que se acendem as luzes / E o cansaço sabe vagamente a uma febre passada” (Livro de Versos, ed. crítica de Teresa Rita Lopes, Círculo de Leitores, Lisboa, 1993, p.205).

 

Bib.: Benjamin Friedlander: “ ‘Aporia’ after Friedrich Holderlin”,  Talisman: A Journal of Contemporary Poetry and Poetics, 6 (1991); C. Stephen Finley: “Hermeneutic and Aporia: Beyond Formalism Once More”, Christianity and Literature, 38, 1 (Carrollton, GA, 1988); Enrique Pupo Walker: “La aporia, la refutacion y los hallazgos contradictorios de la critica contemporanea”, in Los Ensayistas: Georgia Series on Hispanic Thought, 16-17 (Atenas, 1984); Jacques Derrida, De la grammatologie (1967), Apories (1996); Maria Isabel Acosta Cruz: “Severo Sarduy y el juego contrarreferencial de aporias”, in  Revista de Estudios Hispanicos, 17-18 (Rio Piedras, 1990-1991); Paul de Man: Allegories of Reading: Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke, and Proust (1979); Richard Toby Widdicombe: “Eutopia, Dystopia, Aporia: The Obstruction of Meaning in Fin-de-Siècle Utopian Texts”, Utopian Studies, 1, 1 (1990); Roberta Seelinger Trites: “Is Flying Extraordinary? Patricia MacLachlan’s Use of Aporia”, Children’s Literature: Annual of The Modern Language Association Division on Children’s Literature and The Children’s Liter, 23 (New Haven, 1995).

 

Carlos Ceia

 
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Daniela 12-5-2010 Mathesis singularis (R. Barthes)

12/05/2010  Letteratura italiana II Relazione di Daniela Alvarado

Mathesis singularis (R. Barthes)

 

         Non esiste metodologia, Andrea difende questa idea sulla base di quanto afferma Roland Barthes, critico francese (La chambre chaire http://www.faap.br/revista_faap/revista_facom/facom_16/ronaldo.pdf  ) che parla della storia della fotografia.   L’immagine come tentativo di sovrapporsi alla lettura o stabilire comunque un dialogo. Barthes sostiene un suo concetto che deriva dal latino:  “Mathesis singularis” che il tema è singolare ed unico ed è dal testo (o tema) specifico che la metodologia viene costruita. E questo significa che il metodo deve essere tanto singolare quanto il tema.  Detto in altre parole: se esaminiamo un determinato testo con un metodo preconcetto  (un metodo stabilito prima) l’interpretazione obbedirà al ‘metodo’ non al testo. Ci sono, in principio tre prospettive di lettura, o tre approcci:

-lettura ‘lettetterale’, cioè partendo dal presupposto che iltesto “dica” qualcosa di univoco.

– lettura contestuale, cioè confrontando il testo con un contesto (intertestuale, storico, sociologico, biografico)

– letttura  mistica, cioè pensare che è il testo a parlare e non il lettore.

         Cioè, l’insieme degli elementi deve essere sempre, e fondamentalmente, basata sul testo (sempre dipenderà del testo). Un testo letterario non è  un testo letterario e giornalistico cioé non vuol dire qualche cosa determinata (non esiste un messaggio). Il testo si presenta come un corpo per essere esaminato, desiderato, amato opure odiato. Perchè il presupposto fondamentale è che il lettore ci sia con anima e corpo ( il lettore deve avere un rapporto profondo con il testo).

         La letteratura  è basata su aporie cioé, contraddizioni insanabili, una forma per mettere in luce tensioni estreme, ossia, metodo viene da methodein (cammino/ percorso). Il cammino ( metodo di lettura) di un testo viene dal testo stesso ( deve essere scoperto nel testo stesso, una emanazione del testo).

         Ci sono due criteri che possono stabilire un punto di referimento, per la cornice dell´ interpretazione: un criterio è la pertinenza. Cioè pertinenza è caratteristica di un legame  con la materialità del testo (un legame plausibile che può essere argomentato e documentato): una citazione, per esempio.

         Secondo criterio: il testo critico, in principio, deve essere produttivo, cioè creare un ipotesi nuova, creativa, originale di lettura. La prova della novità sta in principio in un effetto estremo: il testo critico nuovo dovrá resultare indispensabile per l’analisi del testo originale. Il testo critico nuovo deve risultare piu forte.

 

http://www.sciacchitano.it/Pensatori%20epistemici/Benjamin/Il%20compito%20del%20traduttore.pdf ( testo do Walter – “Il compito Del treduttore”)

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Cristina Il Rinascimento 5-5-2010

Il Rinascimento

(continuazione)

Cristina 5-5-2010

L’inconscio è formato secondo la psicanalise da quello che viene represso (volontariamente) e rimosso (recalcado, em port.) e viene conservato in un ambito della memoria che possiamo definire  involuntaria, per esempio: 1- un trauma (rottura che provoca un eccitazione con un potenziale superiore alla capacità di assorbimento limite); 2- una bomba – si tratta di un fatto (suono, accadimento, impatto, effetto sanguinoso) che è superiore a quello che la nostra psiche è capace di assorbire. Il trauma (in principio) cancella la parte rappresentabile della memoria ed è poi la principale causa dei sintomi nevrotici: la ripetizione (nevrotica) di un atto, di un movimento, di un tic, fobie (sindrome del panico, claustrofobia, ecc.), balbettio (gagejar) ed anche vuoti di memoria. L’ipotesi di Sigmund Freud (nel suo testo: in Al di lá del principio del piacere) è che la memória rimossa dell’elemento traumatico può essere elaborata successivamente. Infatti, la sessione psicanalitica si basa sull’ipotesi che una regressione “cronologica” affettiva può essere realizzata. Il paziente può “regredire” e ricostruire la scena in cui il trauma è accaduto. Il presupposto dell’analisi è considerare che l’espressione o la rappresentazione tramite parole può modificare una situazione che si trova paradossalmente nel passato. Il presente psicanalitico puó cambiare il nostro passato e è quindi influenzare il nostro presente, migliorandolo. Del resto, possiamo ammettere che ognuno di noi tende ad assumere la memoria del proprio passato che gli conviene, tramite un meccanismo di interpretazione e reinterpretazione. La memoria del passato è arbitraria perché è fatta di interpretazione e reinterpretazione, questo vale per le persone e lê epoche (e vale per i testi letterari!).

Il Rinascimento (secondo Andrea) viene vista in una forma idealizzata, come l’epoca d’oro: l´ideale di un continente che è nato in una grande catastrofe (le guerre di allora per l´egemonia in Europa fra Francia e Spagna e Germania, e in precedenza fra papato Chiesa) e ha provocato grandi catastrofi nel mondo (Africa, America e Asia). Secondo

 

Walter Benjamin nelle sue Tesi sulla storia:  “Non c´è mai stato un monumento della cultura che non fosse anche un monumento della barbarie. E così come la cultura non è priva di barbarie, così non lo è anche il processo di trasmissione della cultura”.

 

Il testo di Benjamin si scaglia in maniera violenta (e ironica) contro l’idea positivista del flusso storico e della ricostruzione “scientifica” e “oggettiva” della storia. Una frase famosa (che viene ripresa da Benjamin) era stata pronunciata da Leopold Von Ranke, uno storico positivista:  “Ricostruire la storia così come è stata veramente” Si intende che questo veramente  è arbitrario e impossibile (da che punto di vista? Esiste un veramente, cioè un´unica verità  delle cose, dei fatti, del mondo?).

Secondo il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”,

ossia, tra parole e cose, tra mondo e sua rappresentazione, tra percezione e interpretazione il legame è arbitrario. Ferdinand de Saussure, dopo pochi anni, confermerà l’arbitrarietà del linguagio.

Uno storico dell´arte, Erwin Panowsky, sostiene la tesi che non esiste un unico Rinascimento, ma ne esistono vari (un Rinascimento del 1100; del 1300, e poi del 1450 che dura in principio fino al 1600).

(Secondo Andrea) Non esiste una definizione unica, perchè la risposta dipende sempre della formulazione della domanda. Dice che “non ha senso domandarsi se il problema ha o no la sua soluzione. Occorre invece cercare sempre la soluzione che il problema necessariamente ha” (cioè: ogni problema ha una sua soluzione. Se mi chiedo se può non avercela, indebolisco la mia ricerca). Difatto, pensare che esiste un unico Rinascimento, o che esistono più Rinascimenti modifica sostanzialmente la nostra visione. Dobbiamo pensare nel tempo di adesso (che è una visione di Walter Benjamin); la rottura è un concetto interessante se viene applicato a un sistema nel suo insieme. Negare – come fanno alcuni studiosi – che è esistito un unico Rinascimento (magari con tanti momenti di prepararazione) nega il valore della rottura in sé. Studiare l´esistenza di tanti Rinascimenti diversi  può aumentare l´interesse per micro-elementi presenti nella storia passata, in momenti non “grandiosi” dellastoria, ma evita di pensare la storia “nel suo insieme”.

Andrea dice ancora che  “la lettura della letteratura per analogia si fonda su concetto di catastrofe, cioè rottura, perchè letteratura è rappresentazione di una esperienza nuova e radicale con strumenti linguistici e stilistici nuovi e radicali. Letteratura è rappresentazione della catastrofe”.

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La pittura: Prospettiva

La prospettiva rinascimentale

[ inserisco questo articolo, molto preciso sul tema]

http://www.italica.rai.it/rinascimento/categorie/prospettiva.htm

vedere anche : http://www.mediastudies.it/IMG/pdf/21._La_prospettiva_artificiale.pdf

http://it.wikipedia.org/wiki/Prospettiva

In questa litografia di Durer del 1525 si mostra la tecnica usata per disegnare la propettiva di oggetti tondeggianti (in questo caso un liuto): una stringa veniva appesa in un punto della parete (era il punto di vista dell’osservatore), poi veniva collegata ad un punto sul liuto e la sua posizione registrata muovendo altre due stringhe tese attraverso una cornice di legno. Il punto d’incontro veniva poi riportato su uno schermo mobile su cardini. Ripetendo l’operazione si ottenevano un certo numero di punti per delineare la forma esatta dell’oggetto. Era un metodo complicato che necessitava di due persone.

Da “prospetto”, voce dotta dal latino prospectus, participio passato di prospicere “guardare innanzi”, prospettiva designa la tecnica geometrica che consente la rappresentazione di una figura tridimensionale su una superficie piana, in grado di riprodurre la visione che della figura ha un osservatore posto in una determinata posizione, cioè il suo punto di vista.
La parola latina perspectiva (nel senso di ars perspectiva è usata da Boezio: dal latino perspicere, “vedere chiaramente”) indica i tentativi che si sono succeduti per la visione in “profondità” della figura spaziale. Gli Antichi, in età ellenistico-romana conoscevano un sistema prospettico basato non sulle distanze ma sugli angoli di visuale e, soprattutto, la prospettiva antica non era piana ma “curvilinea” e “soggettiva”, cioè come realmente noi vediamo gli oggetti della realtà. Ma è solo nel Rinascimento che avviene il salto di qualità nel passaggio dalla scienza della visione a quella della rappresentazione, dalla perspectiva communis medievale alla perspectiva artificialis rinascimentale (con dei risultati precedenti già eccellenti come nel caso della Conferma della regola di san Francesco di Giotto ).
Le regole geometrico-matematiche che consentono di rappresentare esattamente l’immagine delle cose su una superficie piana quindi una prospettiva intesa come la convergenza delle linee di profondità tracciate da un punto di fuga unificato (prospettiva lineare), sono “invenzione” di Brunelleschi, che, tra il 1401 e il 1409 circa, le aveva esemplificate nelle famose tavolette (perdute) che rappresentavano il Battistero di Firenze e la piazza e palazzo della Signoria: le immagini di questi due luoghi erano state prodotte a partire da un preciso punto di vista (quello dell’osservatore) e tramite l’impiego di tecniche geometriche e matematiche.
Su ciascuna tavoletta Brunelleschi aveva praticato un foro in un punto in corrispondenza del punto di vista dell’osservatore, corrispondente al punto in cui il suo raggio visivo incontrava il Battistero (o il Palazzo) lungo un asse perpendicolare: lo sguardo attraverso questo foro incontrava l’immagine della tavoletta riflessa in uno specchio tenuto in opportuna posizione, ed era così obbligato a guardare il Battistero (o il Palazzo) dipinto come l’aveva visto l’artista dal vero.
La cronaca del complicato e, senza precedenti, esperimento ci è stata tramandata dalla Vita di Filippo Brunelleschi di Antonio Manetti: “Così ancora in que’ tempi e’ misse innanzi ed in atto, lui propio, quello ch’e dipintori oggi dicono prospettiva, perché ella è una parte di quella scienza che è, in effetto, porre bene e con ragione le diminuzioni ed accrescimenti che appaiono agli occhi degli uomini delle cose di lungi e da presso: casamenti, piani e montagne e paesi d’ogni ragione, ed in ogni luogo le figure e l’altre cose di quella misura che s’appartiene a quella distanza che le si mostrano di lungi; e da lui è nato la regola, che è la importanza di tutto quello che di ciò s’è fatto da quel tempo in qua”. La grandiosa realizzazione brunelleschiana dei princìpi della prospettiva è nella cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze.
La codificazione della prospettiva in senso rinascimentale, il suo contributo teorico più sistematico, si ha con Leon Battista Alberti e il suo trattato De pictura (“La pittura”: dedicato a Brunelleschi) in cui lo spazio pittorico, scultoreo e architettonico viene regolamentato attraverso un sistema di coordinate numeriche, attraverso calcoli matematici che determinano il sistema dei rapporti tra le grandezze: “Dicono i matematici diamitro d’uno quadrangolo quella retta linea da uno angolo ad un altro angolo, quale divida in due parti il quadrangolo per modo che d’uno quadrangolo solo sia due triangoli. Fatto questo, io descrivo nel quadrangolo della pittura attraverso una dritta linea dalle inferiori equidistante, quale dall’uno lato all’altro passando super ‘l centrico punto divida il quadrangolo. Questa linea a me tiene uno termine quale niuna veduta quantità, non più alta che l’occhio che vede, può sopragiudicare. E questa, perché passa per ‘l punto centrico, dicasi linea centrica. Di qui interviene che gli uomini dipinti posti nell’ultimo braccio quadro della dipintura sono minori che gli altri. Qual cosa così essere, la natura medesima a noi dimostra. Veggiamo ne’ tempi i capi degli uomini quasi tutti ad una quantità, ma i piedi de’ più lontani quasi corrispondere ad i ginocchi de’ più presso” (I 20).
Nel De pictura è esplicito il legame della prospettiva intesa come scienza, come “arte liberale“; rilevante in questo senso la testimonianza di Cristoforo Landino: “Dove lascio Baptista Alberti, in che generazione di dotti lo ripongo? Dirai tra’ fisici. Certo affermo lui esser nato solo per investigare e secreti de la natura: Ma quale specie di matematica gli fu incognita? Lui geometra, lui aritmetico, lui astrologo, lui musico, e nella prospectiva maraviglioso più che uomo di molti secoli”.
E questa nuova scienza della rappresentazione fonda teoricamente le discussioni sul principio d’imitazione (e sul rapporto, quindi, arte-natura), e la stessa elaborazione del bello rinascimentale, con i significati profondi delle sue categorie costitutive, quelle che riguardano ordine, proporzione, simmetria e armonia. E se l’organizzazione estetica dello spazio (basti pensare alle città, ai loro palazzi) è uno degli aspetti più rappresentativi della cultura rinascimentale e della sua tensione classicista all’armonia come proporzione delle singole parti e del tutto, assolutamente strutturale in tutto questo è la parte della prospettiva, in quanto sapere in grado di far convergere verso un punto ideale le linee portanti del progetto costruttivo, secondo precisi rapporti geometrici e matematici nelle proporzioni i diversi suoi elementi.
Naturalmente i trattati sulla prospettiva, dopo Alberti, furono numerosissimi e la discussione rimase a lungo aperta a nuove acquisizioni tecniche e operative: da Piero della Francesca, con il De prospectiva pingendi   (“La prospettiva in pittura”), a Leonardo, da Filarete a Gaurico, eccetera, attraverso tutto il Cinquecento e sino ai nostri tempi.
Anche le tecniche si affinarono e la competenza nell’uso della prospettiva divenne un vanto dell’artista: “Ma molto più fece stupire e maravigliare gli artefici nel chiostro nuovo di detto convento: nella testa del quale, dirimpetto alla porta, in una storia a fresco dipinse Cristo alla colonna battuto, dove tirò una loggia con colonne in prospettiva, con crociere di volte a liste diminuite, e le pareti commesse a mandorle, dove non manco mostrò d’intendere la difficultà della prospettiva”, scrive Giorgio Vasari (Vite, II) a proposito della cappella Cavalcanti in Santa Croce, dipinta da Andrea del Castagno. E ancora Vasari, a proposito dei lavori di Baldassarre Peruzzi nelle sale della Villa Farnesina: “E similmente la sala in partimenti di colonne figurate in prospettiva , le quali con istrafori mostrano quella esser maggior” (Vite, III).
Per Leonardo la “prospettiva non è altro che sapere bene figurare lo ufizio dell’occhio […]. Questo si prova in prospectiva , come le cose remote dell’occhio, ancora ch’esse sieno grandissime, si dimostran di minima figura” (II, 182 e 401). Accenni alla prospettiva come elemento nuovo e meraviglioso abbiamo anche in opere non tecniche: a esempio nel Libro del Cortegiano, quando a proposito del pittore Castiglione scrive: “mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d’Urbino, non di mano di Rafaello o di Michel Angelo, ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far parere per arte di prospettiva quello che non è” (Dedica, I); e poi: “Ed a questo bisogna un altro artificio maggiore in far quelle membra che scortano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva, la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d’ombre vi mostra ancora in una superficie di muro dritto il piano e ‘l lontano, più e meno come gli piace” (I 51).
La prospettiva non è soltanto un elemento tecnico-scientifico: la sua applicazione caratterizzò profondamente il gusto classicistico, il suo stile, le sue “forme simboliche”, secondo il termine coniato da Cassirer e ripreso da Panofsky a sottolineare la portata propriamente filosofica della concezione prospettica dello spazio, destinata a durare fin dentro l’Ottocento. Il declino della prospettiva si fa evidente solo con le avanguardie impressioniste e con la radicale e definitiva rottura della convenzione imitativa e rappresentativa dell’immagine dipinta. Guillaume Apollinaire nei Pittori cubisti scrive: “Ancora un piccolo sforzo per liberarsi della prospettiva, del miserabile trucco della prospettiva, di questa quarta dimensione a rovescio, di questo mezzo per rimpicciolire inevitabilmente il tutto”.

Floriana Calitti

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La scala ben temperata

MUSICA: La scala ben temperata

http://wapedia.mobi/it/Temperamento_(musica)

Alla ricerca di una soluzione pratica agli inconvenienti del temperamento mesotonico, il tedesco Andreas Werckmeister scoprì nel 1691 che un’accordatura ciclica che contenga cinque quinte “mesotoniche” e sette quinte “giuste” (ossia “pitagoriche”) chiude (quasi) perfettamente il ciclo delle quinte e pertanto elimina la “quinta del lupo”, permettendo di suonare in tutte le tonalità. Di questo sistema furono introdotte numerose varianti, note in area tedesca come buoni temperamenti e oggi spesso chiamate temperamenti inequabili. Il Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach (1722) fu la prima opera che ne esplorò sistematicamente le potenzialità. È tuttora oggetto di vivaci controversie fra gli studiosi quale temperamento fosse adottato da Bach, ma c’è generale consenso intorno all’idea che Bach intendesse mostrare la superiorità di una qualche variante di temperamento inequabile rispetto al temperamento mesotonico, ancora diffuso ai suoi tempi. Nei sistemi di accordatura “ben temperati”, le tonalità hanno caratteri diversi tra di loro, poiché le ampiezze degli intervalli non sono costanti.

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